Rete Invibili - Logo
Morte Aldo Bianzino; la famiglia è scontenta della sentenza e cerca ancora la verità
Stella Spinelli
Fonte: eilmensile.it, 6 marzo 2012
6 marzo 2012

"Rispettiamo la sentenza ma mastichiamo amaro. Non volevamo contentini: sappiamo che nostro padre poteva essere salvato. Sappiamo anche che i consulenti del Pm si sono brutalmente smentiti sulle cause di morte di nostro padre. Il tribunale non ha potuto disporre la perizia perché il Pm ha ostinatamente negato la modifica del capo di imputazione. Ha vinto lui, ma secondo noi non dovrebbe esserne fiero. Ci dispiace per nostro papà". Elia e Rudra Bianzino commentano così la sentenza del processo per la morte del loro padre, Aldo, deceduto nel carcere perugino di Capanne il 14 ottobre 2007.
Una sentenza che stabilisce la condanna a un anno e mezzo con pena sospesa di Gianluca Cantoro, una guardia carceraria, colpevole di omissione di soccorso, falso e omissione di atti d'ufficio. Pena ridicola se confrontata alla gravità del reato. Perché quella notte le cose andarono diversamente da come si ostina a raccontarle la guardia del carcere.
Aldo Bianzino non morì all'improvviso per la rottura di un aneurisma celebrale - come hanno cercato di dimostrare, senza riuscirci, i periti della difesa della guardia carceraria - ma si è spento lentamente e fra atroci dolori per un'emorragia cerebrale detta subaracnoidea, dalla quale avrebbe potuto salvarsi se accompagnato d'urgenza in ospedale. Invece, nonostante le urla e i lamenti del prigioniero - in carcere perché in possesso di alcune piantine di canapa indiana - nessuno corse in suo aiuto. Cantoro finse di non sentire e il medico non arrivò se non per constatare il decesso.
Sin da subito, l'agente ha cercato di truccare e i registri per camuffare la sua colpa e l'amministrazione carceraria - nel panico per l'accaduto - prima ha creduto alla tesi di un complotto di detenuti contro la polizia penitenziaria, poi alla versione del campanello d'emergenza rotto.
I legali e i periti della famiglia Bianzino hanno spiegato con chiarezza in aula, documenti alla mano, che Aldo avrebbe potuto salvarsi vista la vicinanza al carcere di Capanne di un ottimo ospedale, quindi, come precisa il legale Fabio Anselmo, "la negazione del soccorso a una persona imprigionata altro non è che tortura, alla faccia dell'articolo 13 della Costituzione".
Una verità che non smettono di gridare quelli del Comitato Verità per Aldo, che mai hanno smesso di sostenere Elia E Rudra e mai si placheranno finché non sarà fatta Giustizia. Ma quella con la g maiuscola.
Perché su questo caso si adombrano anche forti sospetti di torture fisiche subite prima del decesso. Sospetti che è stato impossibile verificare, visto che il giudice ha archiviato la faccenda e dunque gli accertamenti incrociati sul legame fra le cause della morte, la colpa del secondino e l'eventuale compartecipazione di chi disponeva delle chiavi della cella. Perché l'agente condannato non le aveva, quindi non c'entra con le botte, tante, date ad Aldo e i cui segni erano evidenti sul cadavere. L'autopsia, affidata a Lalli, un medico legale noto per essere eticamente irreprensibile, parlava chiaro: Aldo è morto per cause non accidentali e il suo cadavere presentava chiari segni di lesioni traumatiche. Quattro ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, due costole fratturate.
Eppure il pm, Giuseppe Petrazzini, che ha comunque incentrato 65 domande su 120 sulle cause della morte, ha poi rinunciato a dimostrare che Aldo avrebbe potuto essere salvato, evitando quindi di aggravare il capo d'imputazione contro l'agente di polizia penitenziaria che avrebbe previsto il doppio della pena dato che dall'omissione di soccorso è scaturita la morte. Il tutto con il risultato che ai figli di un uomo entrato in carcere in perfetta salute e morto in poche ore non è restato che la rabbia e la frustrazione. La sentenza è comunque un passo avanti verso la Verità, che resta però ancora tutta da appurare.
Fuori e dentro il tribunale, a sostenere i familiari di Bianzino, non sono mai mancati Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldovrandi, e Lucia Uva, sorella di Giuseppe. Tutte vittime di Stato ancora in attesa di verità e giustizia. "Siamo qui compatti perché le nostre storie, pur nelle loro diversità, sono simili ed uguali se teniamo conto di ciò che subiscono le nostre famiglie nelle aule di tribunale - ha detto Ilaria Cucchi. In questi processi abbiamo la sensazione di essere soli contro tutti, talvolta anche contro i pubblici ministeri. Ma essere qui, uniti, ci dà la forza di andare avanti".
"Il caso Bianzino è tutt'altro che chiuso - hanno quindi concluso i figli di Aldo. Ora ci attendiamo che il pm ne prenda finalmente atto fino a che non sia troppo tardi. Altrimenti avremo fatto tutto questo percorso processuale faticoso e costoso durato oltre un anno per nulla. La giustizia non si può permettere di fare questioni di principio o di cavalcare posizioni improbabili il cui distacco dalla verità dei fatti è ormai sotto gli occhi di tutti. L'ordinanza riconosce la giustezza dei nostri dubbi sul fatto che nostro padre potesse essere salvato e anche sulla possibile origine traumatica sull'emorragia che lo ha ucciso. Facciamo questo in memoria di questo padre, consegnato allo Stato vivo ed in perfette condizioni di salute e restituitoci dallo Stato morto".