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La Strage Di Peteano
Marco Veronese

Nel maggio 1972 a Peteano, piccolo paese nei dintorni di Gorizia, una squadra dei Carabinieri riceve una telefonata anonima. All'altro capo del filo una persona ignota avverte di aver udito degli spari provenire da un boschetto nella campagna poco distante dal paese. Quattro militari si recano sul posto e, in una radura, rinvengono una Fiat 500 abbandonata il cui parabrezza mostra chiaramente i segni dei colpi di pistola. Ma il baule dell'auto nasconde un ordigno innescato che, quando i quattro tentano di aprirlo, esplode uccidendo tre di loro e ferendo gravemente il quarto. E' la strage di Peteano, snodo fondamentale in cui compaiono i soliti, noti, attori della strategia della tensione, ma che rivela importantissimi elementi per poter comprendere le ragioni e le modalità che tale strategia seguì.
Le indagini furono ricche di depistaggi e coperture, basti dire che "per dodici anni i veri colpevoli vennero ignorati, focalizzandosi invece su una varietà di indiziati che nulla avevano a che fare con il crimine(1)". All'inizio si seguì una fantomatica "pista rossa", palesemente inconsistente: le indagini si indirizzarono su un nucleo di Lotta Continua, basandosi sulle presunte affermazioni che un noto pentito di sinistra di nome Marco Pisetta, avrebbe rilasciato al comandante del gruppo CC di Trento, colonnello Michele Santoro. Ma sia i magistrati presenti all'incontro con Santoro che lo stesso Pisetta hanno smentito che questi abbia mai parlato di Peteano. La "velina" con il riferimento a Lotta Continua sarebbe stata inviata, in maniera del tutto anomala (fuor di protocollo, tramite corriere e soprattutto senza seguire le vie gerarchiche) al colonnello Dino Mingarelli, comandante della Legione Udine, che aveva avocato a sé la responsabilità delle indagini, dal generale Palumbo, comandante della divisione Pastrengo di Milano, che si era precipitato a Gorizia già il 1 Giugno 1972. "Quella fu l'origine della cosiddetta pista rossa" dichiarò Mingarelli, "io sapevo che quelle notizie arrivavano da Trento e che la fonte confidenziale era Marco Pisetta"(2).
In seguito la pista seguita fu denominata "gialla", ovvero legata a piccoli pregiudicati locali. Anche in questo caso la pista si rivelerà un depistaggio operato dai Carabinieri, infatti, seppure tale pista parve più credibile e conseguentemente venne seguita più a lungo, si rivelò basata su pretese affermazioni di un informatore dei Carabinieri che si rifiutò di riconoscerle davanti alla Corte. I pregiudicati coinvolti da questo presunto informatore furono sottoposti a lunghe indagini e vari giudizi prima che fosse provata la loro innocenza.
Mentre le forze dell'ordine erano impegnate ad indagare su pregiudicati e membri di Lotta Continua, tutti gli indizi a sostegno della più credibile "pista nera" vennero ignorati o scartati, ed addirittura si è parlato di un preciso ordine, non si sa da chi provenisse, di bloccare ogni indagine sugli ambienti di destra.

Le responsabilità reali emergeranno soltanto nel 1984, dodici anni dopo, allorquando l'ideatore, nonché responsabile materiale della strage confesserà. Chi confessa è Vincenzo Vinciguerra, militante di Ordine Nuovo che aveva vissuto in latitanza dal 1974, stabilendosi prima in Spagna dove prese contatto con Stefano Delle Chiaie ed aderì ad Avanguardia Nazionale, e poi in Argentina.
Vinciguerra si era costituito nel 1979, motivando il suo gesto dicendo che la vita da latitante lo avrebbe costretto a compromettere la sua dignità di militante rivoluzionario. Al momento della confessione Vinciguerra si trova in carcere per un'accusa connessa ad un episodio avvenuto nell'ottobre del 1972 all'aeroporto di Ronchi dei Legionari, dove un altro militante ordinovista di nome Ivano Boccaccio, ex paracadutista, tentò di dirottare un aereo per ottenere un riscatto allo scopo di finanziare il gruppo. Boccaccio si trovò circondato ed aprì il fuoco sulla Polizia, che rispondendo lo uccise.
La confessione di Vinciguerra è spontanea e rivelatrice: egli non rinnega le sue azioni passate, ed anzi rivendica con orgoglio la propria qualità di "soldato politico", ma chiarisce di voler confessare per "fare chiarezza", avendo compreso che tutte le precedenti azioni della destra radicale, incluse le stragi, in realtà erano state manovrate da quello stesso regime che si proponeva di attaccare. "Mi assumo la responsabilità piena, completa e totale dell'ideazione, dell'organizzazione e del'esecuzione materiale dell'attentato di Peteano, che si inquadra in una logica di rottura con la strategia che veniva allora seguita da forze che ritenevo rivoluzionarie, cosiddette di destra, e che invece seguivano una strategia dettata da centri di potere nazionali e internazionali collocati ai vertici dello stato [...] Il fine politico che attraverso le stragi si è tentato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi provocazioni innescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per una successiva repressione. In ultima analisi il fine massimo era quello di giungere alla promulgazione di leggi eccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergenza. In tal modo si sarebbe realizzata quell'operazione di rafforzamento del potere che di volta in volta sentiva vacillare il proprio dominio. Il tutto, ovviamente inserito in un contesto internazionale nel quadro dell'inserimento italiano nel sistema delle alleanze occidentali".
Vinciguerra, dunque, prende decisamente le distanze dai vari Delle Chiaie, Delfo Zorzi ed Almirante, considerati falsi rivoluzionari, e lo fa, oltre che con le precise dichiarazioni che rilascia, anche con l'atto medesimo dell'attentato, che doveva, nei suoi piani, affermarsi come unico fatto veramente rivoluzionario: un'azione di guerra esplicitamente rivolta contro lo Stato, impersonato dai Carabinieri, e non contro una folla indiscriminata.
Tale confessione gli costò una condanna all'ergastolo che, però, non lo indusse a collaborare con la magistratura. Solo dopo che la condanna passò in giudicato, e quindi senza più possibilità di ricevere benefici in cambio di rivelazioni, assunse un atteggiamento collaborativo che dura tuttora. Grazie a tale atteggiamento la Magistratura ha potuto ricostruire l'attività di Ordine Nuovo di Udine, che egli guidò insieme al fratello gemello. Il gruppo mostrò un crescendo di azione consueto, passando dalla "propaganda attiva" a risse e pestaggi, per poi arrivare alle rapine di autofinanziamento ed all'utilizzo di esplosivi.
Riguardo all'attentato la Commissione Stragi scrive: "Alla Commissione in ordine a tale episodio non resta che prendere atto di ciò che può ritenersi ormai un fatto storico accertato e consacrato in giudicati penali di condanna; e cioè l'illecita copertura attribuita agli estremisti di destra autori dell'attentato da parte di alti ufficiali dell'Arma dei Carabinieri, tra questi il colonnello Mingarelli condannato dalla Corte di Assise di Appello di Venezia per falso ideologico e materiale e per soppressione di prove [...] Appare sul punto innegabile che i Carabinieri disponessero di un elemento chiarissimo per l'individuazione della matrice della strage, in quanto l'ordinovista Ivano Boccaccia era stato trovato in possesso della stessa arma utilizzata per sparare contro i vetri della 500 ove era stata collocata la bomba di Peteano, ed i cui bossoli esplosi erano stati repertati dai Carabinieri. Alla luce di ciò, è del tutto evidente come la "pista rossa" subito imboccata non possa giustificarsi neppure come una volontà di trovare comunque il colpevole, anche a fini di immagine; emerge infatti chiaro l'intento deliberato di strumentalizzare un episodio, pure così tragico ed una criminalizzazione della sinistra eversiva secondo un disegno strategico preciso".
Insomma, la Commissione riconosce pesantissime responsabilità agli apparati di sicurezza del nostro paese, tra le quali quella, particolarmente inquietante, di aver "pilotato" le indagini verso una direzione strategicamente stabilita. Per questa ragione, nonostante nelle intenzioni dell'attentatore avrebbe dovuto avere tutt'altro significato, anche la strage di Peteano è collocabile nel fenomeno denominato "Strategia della Tensione", anche se, in questo caso, le forze dell'ordine si sono "limitate" a strumentalizzare l'accaduto, senza prendervi parte direttamente.
E', inoltre, opinione della Commissione che l'idea che la strage fosse opera della destra radicale fosse radicata già nel 1972, tanto più che la fuga in Spagna di uno dei principali imputati, C. Cicuttini era stata organizzata dalla rete riconducibile ad Ordine Nuovo. Cicuttini era il proprietario della pistola calibro 22 utilizzata dal Boccaccia nel tentativo di dirottamento aereo.
Sempre la Commissione fornisce gli elementi necessari a comprendere l'entità della strumentalizzazione a fini politici operata dalle forze dell'ordine: Un accurato esame dei bossoli di Peteano avrebbe rivelato che i colpi erano partiti dalla stessa pistola, indirizzando così le indagini sul gruppo di Ordine Nuovo, che, al contrario, non fu toccato, nonostante i numerosi e convergenti indizi a suo carico. Vinciguerra denuncia in modo esplicito il coinvolgimento nell'episodio di alcuni dei più prestigiosi dirigenti della destra estrema e radicale, da Paolo Signorelli a Massimiliano Fachini, fino a Pino Rauti. Giunto in Spagna, Cicuttini continuò ad essere protetto dai vertici neofascisti nazionali ed internazionali e, quando venne riconosciuto responsabile della telefonata anonima e condannato all'ergastolo, la Spagna non concesse l'estradizione.
Altra prova della strumentalizzazione sta nella eterodossa catena di comando costituita dai Carabinieri ad esclusione della Polizia e di altri ufficiali dell'Arma non appartenenti al loro gruppo, che faceva riferimento al generale Palumbo, già collaboratore di De Lorenzo all'epoca del Sifar, poi risultato iscritto alla P2.
Quel che, ai posteri, risulta particolarmente importante riguardo questo particolare avvenimento, sono le dichiarazioni che, in vari momenti, Vincenzo Vinciguerra ha rilasciato a giornalisti e magistrati: in particolar modo la lunga intervista rilasciata a Gigi Marcucci e Paola Minoliti nel carcere di Opera l'8 luglio del 2000, da cui ci pare opportuno estrapolare alcuni stralci:

D: Allora io volevo chiedere a Vincenzo Vinciguerra cos'è una strage e a che cosa serve?

V: La strage è un mezzo che il potere utilizza per creare uno stato di allarme tra la popolazione ed eventualmente poter intervenire per rassicurare questa stessa popolazione. Perché è un evento traumatico che ha interesse a determinare solo chi detiene il potere, perché solo chi detiene il potere può padroneggiare gli eventi successivi. Quindi la strage è un mezzo di prevaricazione del potere sulla popolazione.

D: Per la giustizia italiana anche quella di Peteano, da lei confessata, fu una strage però lei non ha mai ammesso questa definizione. Lei ha tenuto a distinguere la sua opera, la sua azione, da tutto il resto, da tutto quello che noi chiamiamo strategia della tensione

V: Ecco, allora c'è una precisazione da fare. L'attentato di Peteano non ha le connotazioni della strage. E' strage sul piano giuridico. Cioè sulla base degli articoli del codice penale può essere, viene definita strage. Perché il numero dei morti poteva essere indeterminato. Cioè invece di tre carabinieri ne potevo uccidere cinque, sei, sette. Però non è strage, nel senso che l'attentato di Peteano colpisce per la prima ed unica volta un apparato militare dello Stato. In un posto solitario, dove viene esclusa la possibilità di colpire i civili e ha una finalizzazione esclusivamente di opposizione al regime, cioè non si colpisce l'apparato militare del regime per dare la possibilità al regime di sfruttare questo attentato. Ha avuto, come era nelle mie intenzioni, implicazioni politiche pesantissime. Perché anche se sono state sottaciute, negli ultimi anni, di fronte alla Commissione Stragi, Francesco Cossiga ha dovuto ammettere che dopo Peteano iniziò il percorso di divaricazione tra l'Arma dei Carabinieri e il Sid da un lato, e la destra dall'altro. Cioè l'Arma dei Carabinieri, pur tacendo, occultando le prove, depistando le indagini, insieme ad altri apparati dello Stato (Ministero dell'Interno, Guardia di Finanza) prese atto che dall'estrema destra gli era venuto un attacco di quella gravità. E cominciò a prendere le distanze, a staccare dall'estrema destra. Quindi definire l'attentato di Peteano una strage, si confondono un po' le idee alle persone nel senso addirittura di far credere che l'attentato di Peteano avesse le stesse finalità della strage di Piazza Fontana, della strage di Bologna, della strage dell'Italicus. Esattamente l'opposto.

D: Certo. La sua è una storia di grande disillusione. Mi sembra di poter sintetizzarla così, naturalmente lei se vuole mi correggerà. Com'è cominciata questa disillusione? Io so che un punto di partenza è costituito da delle richieste che le vennero fatte. Ricordo un verbale del 1985 in cui lei spiega che le chiesero di attentare la vita di un uomo politico molto importante, Mariano Rumor, già Presidente del Consiglio e lei capì che c'era qualcosa che non funzionava.

V: Si. Questo avvenne nel luglio del 1971.

D: In che organizzazione militava allora?

V: In Ordine Nuovo. Mi chiesero Carlo Maria Maggi e Delfo Zorzi, mi chiesero e lo chiesero per tre volte nel luglio '71, nel novembre '71 e nel marzo '72, mi chiesero di attentare, di uccidere Mariano Rumor. Attentare è un termine improprio. Di uccidere Mariano Rumor nella sua abitazione, ovviamente avevano tutte quante le indicazioni e il Maggi mi disse, evidentemente pensando che mi avrebbe invogliato a partecipare, che non avrei avuto problemi con la scorta. Francamente io, fino al 1971, mi ritenevo facente parte di un'organizzazione di opposizione allo Stato. Non dico rivoluzionaria in senso classico, ma comunque di opposizione se non altro perché eravamo legati ad un passato. Ad un passato politico, militare, ideologico che peraltro si era concluso nel 1945, per noi non dico che potesse essere mai restaurato, per carità, ma comunque ci ritenevamo vincolati a difendere il residuo di una certa immagine onorevole. Quando un dirigente di questa organizzazione rivoluzionaria mi propone di uccidere un ex Ministro dell'Interno, ex Presidente del Consiglio, cioè un personaggio di primissimo piano della vita politica italiana, con l'aiuto della scorta, mi fa intendere che ci sono contatti ad altissimo livello fra la Polizia, il Ministero degli Interni, i suoi apparati di sicurezza e queste persone di Ordine Nuovo. Il dubbio comincia da quel momento in poi. La connessione con la strage di Piazza Fontana, che non è mai stata purtroppo affermata in sede giudiziaria, ma poi parleremo anche dell'opera della magistratura italiana, se lei...

D: Certo...

V: E' data dal fatto che la proposta viene fatta a fine luglio del '71, quando Freda viene scarcerato il 12 luglio del '71; viene reiterata nel novembre del '71 quando Freda è stato arrestato a novembre '71, quindi pochi giorni prima, pochi giorni dopo...

D: Quindi c'è un legame...

V: Esatto, c'è un legame. E viene rifatta per la terza volta nell'imminenza dell'arresto di Pino Rauti, nel marzo del 1972, fine febbraio, inizio di marzo del 1972.

D: Quindi c'è un collegamento diretto tra questa richiesta che le fanno di attentare...

V: e la strage di Piazza Fontana. Cioè si voleva eliminare evidentemente un personaggio politico che in un certo qual modo era compromesso con la strage. Non dico che Mariano Rumor abbia detto "fatemi la strage", ma certamente queste persone, da Mariano Rumor, attendevano una protezione che è venuta a mancare

D: Infatti si parlò di un piano di emergenza che doveva scattare e che invece non scattò...

V: Infatti questo è stato anche un momento del contenzioso che c'è stato l'altro giorno qui a Milano al processo per la strage di Piazza Fontana, che era un'operazione politico-militare, che inizia nel febbraio del 1969 e si conclude nel dicembre del '69 e sulla quale sono state fatte indagini molto lacunose.

D: Cosa manca alla verità su quell'episodio?

V: Alla verità manca la ricostruzione di quello che è accaduto all'interno dello Stato. Manca, ad esempio, ed è clamoroso per tante cose, il fatto che non si sia mai parlato del Fronte Nazionale. Che non era soltanto destra. Quando si parla del coinvolgimento di Mario Merlino e di Avanguardia Nazionale nella strage di Piazza Fontana... per 30 anni ci si è dimenticati che Avanguardia Nazionale nel 1969 era la struttura clandestina del Fronte Nazionale. Quindi quando si parla del coinvolgimento di Delle Chiaie e dei suoi amici nella strage di Piazza Fontana, bisogna parlare del coinvolgimento del Fronte Nazionale, o meglio del principe Junio Valerio Borghese e dei suoi militanti, dei dirigenti del Fronte Nazionale che ripeto, non era soltanto estrema destra, perché aveva riferimenti anche di centro e il principe Borghese era personaggio di ben altra levatura di Stefano Delle Chiaie o Pino Rauti. Con aderenze internazionali di altissimo livello anche nell'ambiente dei servizi segreti come James Jesus Angleton (esponente della Cia, ndr) o, in Italia, con Umberto Federico D'Amato. In pratica per 30 anni si è ristretto il campo delle indagini ad un gruppo di estrema destra che ufficialmente non esisteva in quel periodo, perché questo la magistratura lo sa: AN si scioglie ufficialmente nel 1965 e si ricompone, come gruppo, nel 1970. Proprio perché, in parte infiltra i suoi aderenti e i suoi militanti in altre organizzazioni compresa l'estrema sinistra.


(1) Relazione della Comissione Stragi
(2) Estratto dalla Redazione della Commissione Stragi