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La strana morte di Sauri Youssef nei "tuguri" della questura di Firenze
Salvatore Maria Righi
Fonte: L'Unità, 31 gennaio 2012
31 gennaio 2012

Un suicidio nelle celle della questura di Firenze, su cui indaga la procura, pone interrogativi sul decreto "svuota carceri", con le forze di polizia al collasso per mancanza di fondi.
"In quei tuguri, io non ci terrei nemmeno il mio cane": non è certo un black-block, Riccardo Ficozzi, e nemmeno un criminale incallito. È, anzi, un poliziotto, oltre che un delegato Siulp, che nei "tuguri" ci lavora come tutti i colleghi, perché sono le celle di sicurezza della questura di Firenze. Alcuni budelli di cemento e ferro, gelati d'inverno e bollenti quando fa caldo, con un materassino di gomma steso sul cemento per giaciglio e una grata di ferro sopra la porta blindata per fare passare un pò d'aria. O per appenderci un pezzo di coperta e farla finita, come dicono sia capitato a Sauri Youssef, 27 anni, marocchino senza fissa dimora e qualche precedente.
Venerdì sera il gesto disperato, dopo un pomeriggio al pronto soccorso dell'ospedale Santa Maria Nuova, dove l'hanno portato agenti della Polfer che lo avevano trovato ubriaco alla stazione. All'uscita dal pronto soccorso, le escandescenze e una chiamata al 113, i poliziotti della volante gli trovano addosso un telefonino rubato: lo caricano sulla volante e lo portano in questura nella quale, tanto per dare un'idea dell'allegra situazione di centinaia di servitori dello Stato, il piatto piange così tanto che le donne delle pulizie riciclano i sacchetti della spazzatura, le poche volte che ormai passano lo straccio.
Per non parlare degli otto ascensori fuori servizio su otto, cioè tutti, della caserma "Duca D'Aosta", dove il reparto mobile non è poi più così mobile. Laggiù, in attesa della convalida dell'arresto che per legge deve arrivare entro 48 ore, il dramma di Sauri accade senza che nessuno se ne accorga, perché non ci sono telecamere che sorvegliano i "ristretti" nei loro cubicoli.
Fino a qui la versione ufficiale, la procura ha aperto un fascicolo contro ignoti affidato a Valentina Manuali. Ieri è stata eseguita l'autopsia, per gli esiti previsti un paio di mesi anche se la prima versione parla di "strangolamento".
Il magistrato dovrà chiarire, prima di tutto, la dinamica del suicidio che Sauri avrebbe posto in essere dopo aver messo piede nella cella, e con una sbronza ancora nel sangue. Quindi con la lucidità necessaria a fare a pezzi la coperta, ricavarne una rudimentale fune, appenderla alla grata e infilarsela al collo a mo' di cappio. Inoltre, l'altezza della porta blindata renderebbe abbastanza problematico issarsi e lasciarsi cadere nel vuoto, per un individuo adulto, ma è vero che in carcere c'è gente che si ammazza impiccandosi al lavandino. L'impiccagione "incompleta", così si chiama quando il corpo non è del tutto sospeso, lascia però tracce eloquenti per un medico legale.
C'è anche da dire che tra il 30-40% di detenuti maghrebini e in genere nordafricani che popolano le nostre carceri, il suicidio è evento molto raro, a differenza degli atti di autolesionismo che sono piuttosto diffusi, forse anche perché per l'Islam - come per le religioni abramitiche - è un peccato originale che preclude le porte del paradiso.
Tra i 66 detenuti suicidi registrati lo scorso anno negli istituti di pena italiani, ci sono quattro tunisini, un marocchino, un algerino e un egiziano: circa il 4%. Ma, a parte quest'ultimo caso, si tratta di reclusi con una condanna definitiva, un po' diversa dal fermo di polizia (in attesa di convalida) a cui è stato sottoposto Sauri Youssef.
Peraltro, sarà da chiarire anche la dinamica del ritrovamento del corpo, perché quando è stato l'allarme, il marocchino era ormai agonizzante e i soccorsi non hanno potuto fare altro che constatarne il decesso. In attesa di essere chiarita nei suoi molteplici lati ancora poco chiari, la triste fine di Sauri è già fin d'ora una potente fionda puntata contro il decreto "svuota carceri" appena varato dal governo e in attesa del varo legislativo.
Per alleggerire la situazione ormai esplosiva degli istituti di pena, la norma prevede appunto che le celle di sicurezza si sostituiscano a quelle delle prigioni e ospitino per 48 ore le persone fermate, in attesa della decisione del magistrato. Con esiti anche tragici, come lascia intuire il caso di Firenze, visto che parliamo di strutture dove perfino un bisogno corporale diventa un problema, perché l'uso dei servizi igienici è discrezionale, gli agenti non sono tenuti ad accompagnarvi i "ristretti" che quindi spesso sono costretti a stazionare accanto ai propri escrementi, in condizioni igieniche e sanitarie a dir poco critiche. Oltretutto, trattandosi di locali della questura, non sono previsti poteri ispettivi, al momento nemmeno deputati o istituzioni, a parte il Comitato contro la tortura del Consiglio d'Europa che però si muove ogni morte di papa, ed è costretto ad annunciare le proprie visite. E continuano a chiamarlo stato di diritto.