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Simone condannato come Cucchi
Luigi Manconi e Valentina Calderone
Fonte: Il Manifesto, 27 ottobre 2010
27 ottobre 2010

Mentre in un'aula del Tribunale di Roma si teneva l'udienza del processo per la morte di Stefano Cucchi, la cronaca giudiziaria restituiva memoria a un'altra vicenda, che presenta molte analogie con quella appena ricordata. Simone La Penna, trentadue anni, deceduto a Regina Coeli il 26 novembre 2009, è morto "per denutrizione" un mese e quattro giorni dopo Cucchi.
In carcere da nove mesi, La Penna era in attesa di giudizio per violazione della legge sugli stupefacenti. Aveva sofferto di anoressia, malattia che aveva affrontato, sottoponendosi a due ricoveri. Era guarito, Simone. Un bel ragazzo, alto, di quasi ottanta chili. In nove mesi di carcere ne ha persi oltre trenta.
Dopo un primo periodo di detenzione a Viterbo, inizia il suo calvario: vomito, perdita di peso, squilibri nei livelli di potassio. Di conseguenza viene ricoverato nel reparto detentivo dell'ospedale Belcolle di Viterbo: la cura sembra funzionare e viene dimesso. Ritorna in carcere e il suo peso riprende a calare. Viene trasferito nel carcere romano di Regina Coeli ed è ormai chiaro che la sua patologia è strettamente correlata alla detenzione. Gli avvocati presentano varie istanze affinché gli vengano concessi gli arresti presso il domicilio o in altro luogo idoneo a curarlo. Le richieste però vengono tutte, tenacemente, respinte. Secondo i medici lo stato di salute di La Penna è "compatibile con il regime detentivo".
Dai primi di giugno fino alla fine di luglio La Penna resta ricoverato nel centro clinico di Regina Coeli, ma le sue condizioni si aggravano: e, il 27 luglio, viene ricoverato nel reparto detentivo del Pertini. Lo stesso in cui ha perso la vita Cucchi. Passa due giorni in quell'ospedale, e qui gli viene somministrata una terapia che sembra funzionare.
Quindi, viene riportato nell'infermeria di Regina Coeli. Il 26 novembre, alle 8 di mattina, viene trovato esanime all'interno della cella, ma il decesso risalirebbe a quattro ore prima. Simone La Penna muore in carcere e il suo corpo è ridotto a poco più della metà di com'era prima di entrarvi. Deperito, prosciugato, come svuotato.
Ieri il pm Eugenio Albamonte ha annunciato l'avvio dell'inchiesta, con l'iscrizione nel registro degli indagati di sette tra medici ed infermieri del Pertini e di Regina Coeli. Il reato ipotizzato è omicidio colposo e le domande che pone il pm sono semplici: perché i medici non hanno segnalato le sue condizioni? Gli sono stati prescritti i farmaci necessari? Qualcuno si è preoccupato che li assumesse? Questa vicenda, nonostante l'assenza di lesioni procurate da terzi, ricorda molto da vicino quella di Stefano Cucchi, per la cui morte, ieri, è stato chiesto il rinvio a giudizio di sei medici e tre infermieri (oltre che di tre agenti di polizia penitenziaria accusati di lesioni aggravate e abuso di autorità e di un funzionario dell'amministrazione) accusati, tra l'altro, di abbandono di incapace.
Le analogie con altre storie sono numerose e se ne potrebbero citare a decine. Ne ricordiamo una fra tutte, risalente al 1999, e assai familiare a questo giornale. Marco Ciuffreda, morto nel carcere di Regina Coeli per qualcosa che possiamo definire abbandono terapeutico. Gli erano stati concessi i domiciliari, ma non c'erano abbastanza volanti e poliziotti per accompagnarlo a casa e, così, è rimasto in carcere più di quanto la legge disponesse. La terapia prescrittagli non prevedeva metadone, che pure assumeva tramite il Ser.T. presso cui si curava. I sanitari del carcere sottovalutarono le sue condizioni, non garantirono la vigilanza medica per oltre ventiquattro ore e Ciuffreda venne portato in ospedale quando ormai era troppo tardi. Nel processo penale, nessuno è stato ritenuto colpevole della sua morte; in quello civile, lo Stato ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento di 6.000,00 euro per "ingiusta detenzione".
Ieri è stata aperta l'indagine per la morte di La Penna e, nel processo per quella di Cucchi, si sono ascoltati gli argomentatissimi interventi dei legali della famiglia, Fabio Anselmo e Sandro Gamberini. Dunque, qualcosa di positivo, al momento, sembra emergere: ci auguriamo che alla fine prevarrà sulla intollerabile sensazione che, da quel 1999, nulla sia cambiato.