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«Un po' d'acqua e zucchero e Stefano ce la poteva fare»
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 1 maggio 2010
1 maggio 2010

L'omicidio di Stefano Cucchi, dunque, sarebbe una conseguenza dell'abbandono totale di una persona che era sotto custodia: «Il capo di imputazione è terribile», continua Anselmo, che è anche il legale degli Aldrovandi, degli Uva, dei Rasman. Il procuratore capo di Roma chiarisce che quel reato è punito dai 3 agli otto anni.
Così l'inchiesta sembra giunta al capolinea con queste richieste di rinvio a giudizio arrivate ieri a sei mesi dai fatti e dopo l'acquisizione di 80 testimonianze. Cucchi fu preso il 15 ottobre, il giorno appresso gli furono convalidati gli arresti per direttissima. Arrivò in tribunale con gli occhi gonfi ma, nella narrazione che ne fanno i capi di imputazione, non vi sarebbe traccia di questo dettaglio svelato poche ore dopo da suo padre.
Tuttavia Fabio Anselmo crede che sia riduttivo soffermarsi sulla derubricazione, da omicidio preterintenzionale a lesioni, dell'imputazione delle guardie carcerarie. Le richieste di rinvio a giudizio, dunque, sono 13: tre agenti per lesioni e abuso d'autorità; sei medici, tre infermieri e un dirigente del Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria (Prap) accusati a vario titolo di abbandono di incapace, falso ideologico, abuso d'ufficio e favoreggiamento.
Le guardie avrebbero spinto in terra e preso a calci il giovane detenuto mentre era nei sotterranei del tribunale causandogli ematomi, escoriazioni e fratture in parecchie parti del corpo. Quelle più gravi alla schiena. Tutto ciò per farlo smettere di lamentarsi. Stefano chiedeva loro farmaci. Perché?
Due indagati, un medico e il dirigente del Prap, dovranno rispondere della fabbricazione di una cartella clinica fasulla in cui si mentiva sulla salute del detenuto per «precostituirsi le condizioni del ricovero». Così ridotto Stefano non doveva stare lì. Più magro di com'era stato arrestato, non riusciva a stare in piedi, aveva il catetere. Era semiparalizzato. Ma i due "inventarono" una normalità che non c'era pur di occultare il detenuto a sguardi scomodi. Ad esempio quello dei parenti o di altri detenuti. Una volta seppellito il ragazzo dentro il bunker del Pertini dedicato ai carcerati, i medici e gli infermieri lo avrebbero abbandonato a sé stesso: «Omettevano di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza», scrivono i due pm. Non gli fecero l'elettrocardiogramma sebbene il suo cuore battesse solo 46 battiti al minuto. Nemmeno gli avrebbe tastato il polso. Nemmeno somministrandogli un po' di acqua e zucchero. Sarebbe bastato a evitare di ucciderlo. Nonostante il linguaggio burocratico dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, la lettura delle sette pagine è sconcertante. «Volontariamente omettevano di comunicare al paziente l'assoluta necessità di effettuare esami diagnostici», «omettevano di intervenire pur avendo constatato la criticità delle condizioni del paziente», «omettevano di controllare il corretto posizionamento del catetere». E poi non l'hanno voluto trasferire in un reparto più idoneo per aiutare gli appartenenti alla penitenziaria a eludere le investigazioni. Una di loro avrebbe perfino falsificato il certificato di morte: sapeva delle fratture di origine violenta ma scrisse: «Morte naturale».
Chiaramente sono soddisfatti i legali degli agenti di polizia penitenziaria ma annunciano che, ciò che li interessa maggiormente è «la verifica effettiva su chi ha provocato quelle lesioni». Proveranno a dimostrare l'impossibilità di appiccicare ai singoli quelle lesioni oppure a compierne una datazione differente? Il capo del Dap, ossia il massimo dirigente di quella Polizia ha dichiarato di non essere l'unica amministrazione ad essere coinvolta nella vicenda. Riuscirà il processo a illuminare tutta la storia degli ultimi sei giorni di vita di un ragazzo che aveva come unica colpa quella di avere in tasca pochi grammi di fumo?
«I medici si devono vergognare e non sono più degni di indossare un camice», commentano i familiari di Stefano, sprofondati da sei mesi nell'incubo di centinaia di altre famiglie in quello che Manlio Milani, marito di una vittima della strage di Brescia, ha chiamato il «Paese dei comitati». L'ordine dei medici, da parte sua, fa sapere che solo dopo il primo grado di giudizio comminerà sanzioni eventuali ai colleghi coinvolti.
Torniamo sulla modifica dei capi d'accusa: Antigone, l'associazione che si batte per i diritti dei ristretti, teme che la derubricazione affondi la verità: «Il detenuto, prima di morire, è passato davanti a molti soggetti istituzionali: carabinieri, guardie carcerarie, il direttore di Regina Coeli, infermieri e medici del reparto. «La ricostruzione della vita di Stefano in quei momenti è allucinante, ricorda la detenzione degli internati dei campi di concentramento, di Auschwitz e di Dachau», dice ancora Fabio Anselmo.