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Intervista ad Enrico Zucca: «Le scuse per i fatti del G8? Troppo poco e troppo tardi»
Claudia Fusani
Fonte: L'Unità, 10 luglio 2012
10 luglio 2012

«Troppo poco e troppo tardi», Soprattutto «si perde l'occasione per capire il vero lato oscuro del G8, la tendenza nelle forze dell'ordine di aggiustare le prove per arrivare allo scopo. Gli inglesi la chiamano nobile cause corruption, la corruzione per nobili motivi».
Enrico Zucca, è stato il magistrato che ha rappresentato l'accusa nelle indagini sull'irruzione alla scuola Diaz durante i giorni del G8 del 200l a Genova. Ci mette qualche giorno prima di commentare la sentenza della Cassazione che giovedi ha condannato in via definitiva i funzionari di polizia. «E lo faccio solo - aggiunge - perché è giusto chiarire informazioni diffuse in maniera distorta».

Alla fine ha retto il suo impianto accusatorio che pure era stato respinto in primo grado. Si aspettava di vincere in Cassazione?

«Serve prima una premessa tecnica. Ma rispondo subito alla domanda. La prevedibilità di quella sentenza era incerta non per ragioni processuali ma per le pressioni cui sono stati sottoposti i giudici in questi mesi. Importanti organi di stampa hanno ricordato, alla vigilia del verdetto, la necessità di valutare la ragion di stato. Questo è grave».

Qual era la premessa tecnica?

«Le due sentenze, l'assoluzione in primo grado e la condanna in Appello, non sono cosi agli antipodi. Entrambe affermano quello che tutti negano: gli imputati erano al comando delle operazioni quella sera, guidavano le truppe con caschi e manganello. Il primo grado ha assolto per insufficienza di prove, i condannati potevano non essersi resi conto di quanto era successo. Una tesi debole. Che contrasta con la tanto proclamata eccellenza investigativa di questi funzionari: e con le deposizioni in Parlamento nel 2001 quando fu spiegato che "le perquisizioni in certi contesti non si fanno con i guanti". La Corte d'appello ha corretto sulla base dei filmati. La Cassazione ha confermato che l'indagine è stata impostata su prove solide e concrete contro persone determinate e fatti specifici».

L'attuale capo della polizia Antonio Manganelli ha chiesto scusa. L'allora capo Gianni De Gennaro parla di "dolore per chi ha subito torti" ma rivendica "la sua correttezza". Entrambe le cose dovevano, potevano essere fatte prima?

«Non c'era bisogno della sentenza definitiva per chiedere scusa. Quello che è successo quella sera era un'evidenza ieri e lo è oggi. Basta guardare i filmati come ha fatto il ministro Cancellieri. La presunzione d'innocenza è un principio sacrosanto. Ma la Corte Europea dei diritti dell'uomo impone la sospensione dei funzionari ogni volta che sono rinviati a giudizio e la rimozione se sono condannati»,

La sentenza rende giustizia alla grave lesione dei principi democratici accaduta in Italia quella notte di undici anni fa?

«È come le scuse: tutto troppo tardi e troppo poco. Chi chiede scusa per le tante difficoltà che l'ufficio della pubblica accusa ha incontrato negli anni dell'indagine? Cosa dicono quelle istituzioni che hanno considerato l'indagine stessa un abuso? La polizia ha iniziato da subito una sotterranea battaglia di boicottaggio»

Si riferisce alle bottiglie molotov, prove decisive per l'accusa di falso, sparite dall'ufficio reperti della questura?

«Anche. Vorrei ricordare che negli interrogatori gli indagati, i comandanti effettivi, hanno sostenuto di essere arrivati tre minuti dopo, quando era già successo tutto. I filmati dicono il contrario. Delle due l'una: o era un ordine dall'alto, oppure un errore che però andava subito smascherato e denunciato. Ma da quel punto in poi non abbiamo più avuto risposte».

I duecento agenti dell'irruzione sono rimasti ignoti. Come è possibile?

«L'istituzione polizia non è stata in grado di identificare i suoi uomini. Ma è accaduto di più; nel verbale di arresto c'è una firma a cui non siamo mai riusciti a dare un nome. Chi chiede scusa per il boicottaggio alle indagini? Non ci può essere riconciliazione finché non emergeranno i responsabili del tentato omicidio di Mark Covell».

Alcuni tra i migliori investigatori del paese sono sospesi dal servizio. Poteva essere evitato, undici anni dopo?

«Al netto della compassione umana, credo sia più giusto dire che le vere eccellenze investigative sono gli agenti e gli uffici. Qui non sono mai state in gioco le sorti dell'istituzione polizia ma le carriere di singole persone».

Importanti commentatori hanno parlato di convitati di pietra mai chiamati in causa nell'inchiesta. È stato fatto il nome di Ansoino Andreassi...

«È vile e irresponsabile chiamarlo in causa. Andreassi non era d'accordo con l'operazione e si chiamò fuori, E De Gennaro invio il prefetto La Barbera...».

De Gennaro coordinava da Roma. Non era il capo della catena di comando?

«Giudiziariamente abbiamo chiamato a rispondere i capi di un operazione militare, la catena di comando che era li sul posto e non una immaginaria o ipotetica. Le responsabilità e le scelte politiche non sono nella nostra competenza. De Gennaro aveva fissato un obiettivo politico e tecnico: riscattare l'immagine della polizia di stato dopo giorni di guerriglia. Per quel fine è stato giustificato ogni mezzo. Questo non è consentito nelle democrazie occidentali».

Le ha fatto effetto sapere che la squadra di La Barbera, indagando sulle stragi di mafia, aveva manomesso le prove?

«Le indagini sul G8 hanno fatto emergere un lato oscuro, il fenomeno della corruzione per nobile causa, la nobile cause corruption, termine coniato da un poliziotto inglese negli anni ottanta. Si tratta di prassi devianti che ogni polizia sa che allignano al suo interno, Significa aggiustare le prove pur di arrivare all'obiettivo. Durante il G8 alcuni uomini delle istituzioni hanno pensato, in buona fede, che dovevano assicurare un risultato ma l'hanno fatto commettendo il peccato mortale di ogni pubblico funzionario. Purtroppo è un fenomeno vasto. Che non va sottovalutato perché da qui passa la differenza tra democrazia e stato totalitario».