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Uso legittimo della memoria
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 12 giugno 2011
12 giugno 2011

"Roma, settembre 2010, "Io al suo posto mi preoccuperei".
Un'ombra d'angoscia appare sul suo viso. Prima di separarci.
Sono passati quasi dieci anni, ma lui ha paura, e pensa che anche noi dovremmo averne.
Due ore, uno di fronte all'altro, seduti in un bar.
"Quante volte mi ha cercato per propormi questo appuntamento?" mi chiede appena ci sediamo.
"Una sola volta, martedì, quando ci siamo parlati".
Mi mostra il suo cellulare, risultano sei, sette telefonate ricevute da casa mia. Una sarebbe durata sei minuti. La prima risalirebbe al 12 agosto. Ma io quel giorno non ero nemmeno a Milano.
Mi sento raggelare. Glielo dico.
Trent'anni in ruoli di grande responsabilità negli apparati dello stato non gli sono sufficienti per nascondere la preoccupazione.
E' un istante; la professionalità riprende il sopravvento: "Ci sarà qualcosa che non funziona nel mio cellulare, lo farò controllare".
Non ci credo. E so che anche lui non crede alle sue stesse parole.
Sa bene come interpretare certi messaggi.
Hanno voluto fargli sapere che "loro" sanno del nostro incontro. Non ha cancellato l'appuntamento, ma ha voluto informarmi subito che ci stanno controllando. E ha scelto di rendere esplicito il nostro incontro. Ora ho capito perchè siamo in un bar tutto a vetrate.
Alzo lo sguardo, a un tavolino all'aperto è seduto un giovane uomo, avrà sui trent'anni, è vestito in modo trasandato, indossa un paio di Jeans e ha i capelli lunghi. Armeggia attorno a un computer. Mi pare che stia orientando un microfono verso di noi.
Mi tornano in mente quegli uomini vestiti da Black Bloc fotografati mentre discorrevano tranquillamente con i loro colleghi poliziotti. Era il luglio 2001.
"La ringrazio per aver accettato d'incontrarmi. Con Lorenzo Guadagnucci stiamo scrivendo un libro per il decennale di Genova. Ci interesserebbe molto sentire anche il suo punto di vista".
Ma le mie domande resteranno senza risposta.
Ha già sfidato una volta il codice d'onore della banda. E il prezzo è stato alto.
Mi guarda dritto negli occhi.
"Ma questo libro dovete proprio farlo? State molto attenti".

Maggio 2011. Quel libro, alla fine, è uscito. E' un libro su Genova scritto, dieci anni dopo, dal medico della Lila e dei metalmeccanici scelto come portavoce del social forum, e dal giornalista che venne a Genova per seguire le questioni dell'economia solidale ma si trovò a dormire alla Diaz la notte del 21 luglio. "L'eclisse della democrazia. Le verità nascoste sul G8 2001 a Genova" di Vittorio Agnoletto e Lorenzo Guadagnucci (Feltrinelli, pag. 288, 15 euro).
Il tono noir del prologo (qui accanto in corsivo) rende conto di altri dieci anni vissuti in mezzo ai misteri italiani che viziano un bel po' l'aria che respirano i movimenti sociali in questo Paese. Ma non è la sola aria possibile e il libro ha il merito di mettere in fila, in ordine per tempi e per luoghi, una gran quantità di materiali e di ragioni. Legge le risultanze processuali con la lente delle controinchieste, spulcia tra le migliaia di pagine di sentenze, verifica i dati emersi dalla blanda indagine conoscitiva svoltasi all'indomani dei fatti ma da cui sono filtrati pezzi di un mosaico che va composto senza mai dimenticare le ragioni che spinsero centinaia di migliaia di persone a manifestare e i modi con cui trovarono la strada da Porto Alegre a Seattle fino ai giorni nostri.
Solo questo intreccio potrà fornire risposte adeguate non solo a capire ma a consentire una ripresa di parola alle reti del Nord e del Sud del mondo che contrastano questo neoliberismo inferocito dalla sua stessa crisi.
Un libro su Genova, circola da quasi un mese, non ha l'onore del piccolo schermo. Nemmeno in quelle trasmissioni che hanno preteso di cucirsi addosso l'aura di paladine della libertà d'informazione. Perchè quell'aura è possibile solo dentro il teatro mediatico, che il movimento mandò a gambe per aria, del bipolarismo. Fuori dai suoi canevacci non avrebbe più senso, rischierebbe di non saper spiegare - solo per fare un esempio - perchè mai se da una parte ci sono i buoni di centrosinistra e dall'altra i cattivi di centrodestra, alla guida del Wto, dieci anni dopo Genova, ci sia un ex parlamentare francese: un socialista come Pascal Lamy.
Un libro su Genova fa paura. Specialmente questo. Perchè sul mainstream tira più il gossip. E qui di pettegolezzi non ce n'è ombra. Fa paura perchè oggi e domani milioni e milioni di italiani chiederanno che l'acqua resti pubblica e l'energia sia pulita, rompendo in massa per la prima volta alcuni dei tabù della globalizzazione liberista. E questo desiderio di liberazione e le competenze che ne sono scaturite vengono da lì, da quelle giornate di macaia in cui si solidificò, rendendosi visibile, per un attimo, la galassia fluida dei movimenti.
Il punto di partenza è l'inchiesta impossibile, quella sui vertici di polizia implicati nella "macelleria messicana" alla Diaz, condotta da due pm coraggiosi, Zucca e Cardona Albini che qui riferiscono la "proposta indecente": "Arriva dalla polizia una richiesta esplicita, una sorta di patto: voi rinunciate ad andare a fondo delle inchieste sulla polizia, noi facciamo altrettanto sui manifestanti". Era il settembre del 2001. La ricostruzione che ne esce è senza precedenti per la molteplicità di prospettive seguite e per i frammenti inediti che gli autori sono stati capaci di trovare. Perchè per nascondere la verità non sempre la censura è lo strumento più efficace. A volte è sufficiente evitare di fare collegamenti, enfatizzare dei fatti a scapito di altri, alzare il volume del rumore di fondo per coprire voci altrimenti nitide. Che è proprio la gamma delle possibilità esplorate prima, durante e dopo quel maledetto G8 del 2001. A metterle in fila riemergono dall'oblio le veline che avrebbero dovuto riorientare l'immaginario collettivo sui no global, fin dalla primavera precedente, modulandolo su un clichè deformato per dirottare un'opinione pubblica già allora in evidente sofferenza per le contrazioni continue dell'area dei diritti sociali a causa dei diktat neoliberali. Al fuoco di fila di indiscrezioni su fionde, sangue infetto, alianti e catapulte che i no global sarebbero stati in procinto di usare vanno senz'altro aggiunti alcuni episodi misteriosi che avrebbero alzato la temperatura mentre il Gsf tesseva una delle reti di relazioni più ampie che si fosse vista fino ad allora.
Tra questi c'è senz'altro il rinvenimento di un documento anonimo, a Roma, in via della Vite, il 5 giugno del 2001. Stile, notizie e modalità di rinvenimento fanno pensare ai servizi. E la previsione che un operatore delle forze dell'ordine, inesperto e stressato, possa uccidere un manifestante apparirà, il pomeriggio del 20 luglio, la più fosca delle profezie che si autoavvera.
La memoria di Vittorio e Lorenzo non tralascia nulla e la loro ostinazione riesce a illuminare più di una zona d'ombra. Riescono a svelare i retroscena di quell'impresa, le pressioni di chi minacciava reazioni incontrollabili della polizia, gli ostacoli di ogni tipo all'inchiesta, lo scenario di una polizia che - dal Viminale fino alla disastrata questura genovese, teatro in questi anni di molti altri scandali (l'inchiesta su un uomo d'affari siriano nella black list dell'Onu per armi e riciclaggio farà spuntare sorprendenti relazioni tra questi e pezzi di quella questura) - proverà a occultare quella che fu - dentro al più massiccio attacco ai diritti umani del dopoguerra italiano - un'operazione che doveva servire a De Gennaro, nominato da Amato (e Amato lo chiamerà a sè quando lascia il Viminale), per saltare il fosso, accreditarsi col nuovo governo Berlusconi dopo aver vendicato le figuracce in strada dei giorni precedenti.
E' un testo utile per capire cosa ci facevano tre parlamentari (due di An e uno della Lega) nella sala operativa dei carabinieri proprio mentre un capitano "disobbediva" agli ordini e attaccava il corteo delle tute bianche. Serve a capire, in generale, la strategia complessiva e l'impatto che ebbe su un organismo fragile come quello disegnato dal patto di lavoro del Gsf. Tra le righe si troverà che la risposta sull'inchiesta mai fatta dal Parlamento sul G8 non è quella semplice che accolla la responsabilità a un dipetrista ma risiede nel fatto che la sinistra non ha saputo "isolare i Violanti".
E' uso legittimo della memoria, tutto ciò, perchè parla all'oggi. Non soltanto a chi sta per tornare a Genova.