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«Non si indaga sulla polizia». Cosi' l'inchiesta rischio' lo stop
Matteo Indice
Fonte: Secolo XIX
26 maggio 2010

C'è un momento importante, da evocare oggi che le condanne per l'irruzione alla Diaz mandano in fibrillazione i principali investigatori del nostro paese. E va ricercato nell'agosto di nove anni fa.
L'inchiesta sui pestaggi nell'istituto dove dormivano i noglobal, sulle false molotov attribuite ai manifestanti e sui verbali farlocchi a giustificare il massacro, rischiò di finire nel nulla ancor prima d'ingranare, perché dai massimi livelli della Procura arrivò una sorta di veto all'iscrizione dei superfunzionari sul registro degli indagati. Il pool di magistrati che doveva occuparsi del'affaire G8 e dei tanti rivoli nei quali si era frammentato il dramma di quei giorni (la morte di Carlo Giuliani, le devastazioni dei manifestanti, i pestaggi di Bolzaneto e della Diaz appunto) era infatti coordinato all'epoca da due procuratori aggiunti: Giancarlo Pellegrino, oggi in pensione, e Francesco Lalla, attualmente numero uno dei pm a Genova. Il procuratore capo era invece Francesco Meloni, pure lui attualmente pensionato.
Si avvicina dunque il Ferragosto del 2001 quando, tirando le somme d'un mese di accertamenti sul comportamento delle forze dell'ordine , i pm arrivano alla conclusione che vanno messi sott'inchiesta un bel po' di "graduati". E fra loro figurano quelli che, oggi, sono autentici big della sicurezza italiana: l'attuale numero tre della polizia Francesco Gratteri (condannato a quattro anni e dirigente del Dipartimento centrale anticrimine) oppure Giovanni Luperi, al momento capo degli analisti nei servizi segreti. Hanno firmato il verbale falso successivo all'irruzione, nei loro confronti andrebbero formulate accuse precise. In quel momento, quando si deve percorrere la via più ostica, il procuratore Meloni è fuori Genova. E prima di partire ha fornito indicazioni nette: «Le scelte più importanti vanno prese con assoluta unità». Eccolo, il problema. Almeno uno dei due "aggiunti", Francesco Lalla, non è convinto della strada che si sta per imboccare, per lui quei poliziotti non vanno indagati. È il momento clou, il bivio davanti al quale rischia d'insabbiarsi l'indagine che più ha messo in discussione la polizia italiana negli ultimi vent'anni. Meloni rientra in Liguria, i magistrati del pool G8 gli scrivono una nota segreta in cui chiedono, formalmente, che quei superpoliziotti non restino intoccabili. Dopo una riunione di fuoco si opta per iscrizioni «progressive», un passo alla volta, ma comunque si procede. Francesco Lalla oggi minimizza: «Io avevo le mie opinioni, le espressi, ma non svolgevo un ruolo di coordinamento tale da influenzare in modo così pesante il lavoro d'ogni singolo sostituto. Parlare di frizioni mi sembrerebbe eccessivo». C'è di più. Una parte degli accertamenti, per un certo periodo, fu affidata a un «ufficio G8» messo su dalla questura genovese (questore era ancora Francesco Colucci, che sarebbe stato a breve silurato) di cui facevano parte alcuni degli investigatori poi finiti sott'accusa.
È questa, la vera genesi di un'indagine che ha rischiato concretamente di finire sul binario morto prima di rotolare come una valanga fino alle 26 condanne di martedì. A volte basta un bivio, davvero, per cambiare storie (parecchio) importanti.