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G8 di Genova, un poliziotto ammette: quella notte alla Diaz li abbiamo massacrati
Testimonianza choc in aula del vice questore Fournier: ho mentito. La Commissione d'Inchiesta su quei fatti appare ora non più rinviabile
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)
14 giugno 2007

Accidenti se fu una "notte cilena"quella nella scuola Diaz, tra il 21 e il 22 luglio del 2001. A ripensarci quasi sei anni dopo Michelangelo Fournier utilizza un'espressione che farà epoca: «Sembrava una macelleria messicana». Le vittime della Diaz, però, preferiscono la formula di «perquisizione all'italiana». Più di 40 feriti, anche gravissimi e 93 arresti illegittimi. Il portavoce del Viminale, quella stessa notte, sostenne trattarsi di una «normale perquisizione».
Fournier, romano, all'epoca vicequestore aggiunto, lo ha detto chiaro e forte a chi lo interrogava ieri nel Palazzo di Giustizia genovese. Perché il vicequestore aggiunto era il braccio destro di Vincenzo Canterini, nel primo reparto mobile di Roma, la Celere, e guidò all'interno del dormitorio del Genoa social forum, che ospitava sfollati dal nubifragio di due notti prima, l'irruzione del più nutrito dei reparti che presero parte alla «macelleria messicana»: quel reparto sperimentale, nato per il G8 genovese, con celerini di ogni parte d'Italia addestrati all'uso dei tonfa e sciolto all'indomani dei misfatti nella scuola. Perché non l'avesse mai detto prima d'ora, lui dice che gl'è mancato «il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti». Allora disse di aver trovato solo gente già ferita. Come il suo capo di allora, sentito dallo stesso tribunale pochi giorni fa. La stessa versione fornita dal portavoce del Viminale ai cancelli della Diaz mentre uscivano decine di manifestanti martoriati in barella: «Feriti negli scontri di stamattina», si sentirono raccontare i cronisti.
Sì, ma perché Fournier mentì? «Per spirito di appartenenza».
Fournier è uno dei 28 tra agenti e funzionari sotto processo per violenza, lesioni, falso e calunnia. Ha raccontato, unico, finora, di quattro colleghi, due con la cintura bianca sull'uniforme "atlantica" e due in borghese con la pettorina. «Erano al primo piano e infierivano su una decina di persone a terra». Con quelle divise potevano essere dello Sco o dei raparti di prevenzione crimine. Per lui è importante che non fossero dei suoi. E' lo spirito di corpo di cui sopra. Che poi le vittime della Diaz ci pensano un attimo e gli mandano a dire, a stretto giro, che semmai proprio lo spirito di corpo lo avrebbe dovuto spingere a raccontare tutto e subito.
Comunque l'opera di quei quattro lo terrorizzò, così ricorda: quando ha «visto a terra una ragazza con la testa rotta in una pozza di sangue» Fournier crede che stia morendo. Deve spintonare i colleghi per farli smettere. Ricorda spontaneamente che uno di loro si portò la mano all'inguine e mimò col bacino un atto sessuale.
Poi però è meno credibile quando dice di non conoscere nessuno dei "macellai messicani", almeno secondo i legali delle parti civili. Uno di loro, Emanuele Tambuscio, sottolinea a Liberazione che Fournier conferma quanto gridato dalle vittime fin dal primo giorno: che non ci fu resistenza agli agenti, fore 300, in azione quella notte. Ma Fournier non fa nomi, non firma verbali ufficiali ma solo una relazione a uso e consumo del suo capo e con le medesime reticenze riservate ai magistrati per salvare il buon nome della polizia.
Di fronte alla domande dei pm Zucca e Cardona Abini, continua a ricordare. L'aveva annunciato che al processo avrebbe detto la sua verità. Così dice che pensava che la ragazza a terra fosse spacciata. Cacciò un grido e fece allontanare i picchiatori. I grumi di sangue intorno alla donna gli sembrarono materia cerebrale. Chiese a un'altra ragazza, che aveva una casssetta di pronto soccorso, di stare accanto alla manifestante ferita ma di non muoverla. Non avrebbe scommesso una lira sulla sua sopravvivenza. Ordina per radio ai suoi uomini di lasciare subito la scuola e di chiamare le ambulanze. E chiarisce pure che «sicuramente nella scuola c'erano persone che hanno fatto resistenza, issato barricate, per cui non mi sento di dare patenti di santità a tutti gli occupanti dell'edificio». Ma dice anche di non poter escludere «in modo assoluto che qualche agente del mio reparto abbia picchiato» ed esclude di aver visto lanci di oggetti. Manco i suoi, infatti, sarebbero in odore di santità. E chiarire chi entrò per primo nella scuola è uno dei nodi del processo. Come la catena di comando. Fournier ha spiegato che sia Canterini che Mortola, allora capo della digos genovese, prendevano ordini da due altissimi funzionari, il prefetto La Barbera e che guidava l'Ucigos, ora deceduto, e Francesco Gratteri, all'epoca direttore dello Sco, il servizio centrale operativo. E poi promosso questore a Bari.
Sempre Fournier ha raccontato di aver visto visto il vicequestore Troiani, quello che avrebbe portato le due molotov nella scuola per avallare la tesi dell'irruzione a caccia di black bloc. Era accanto alla camionetta con il casco della celere di Roma. Caschi e cinturoni di quel tipo, quei giorni, sarebbero stati distribuiti anche ad altri reparti mobili.
Graziella Mascia, la deputata Prc che seguì la prima blanda indagine conoscitiva, torna a chiedere - con Russo Spena e Grassi del Prc, l'eurodeputato Prc Agnoletto, nel 2001 portavoce del Gsf,il verde Cento, il mussiano Leoni, Sgobio del Pdci - due cose scritte già nel programa dell'Unione: una vera commissione parlamentare, e l'istituzione del codice alfanumerico a «garanzia dei cittadini e a responsabilizzare gli agenti». Se fosse stato usato a Genova sapremmo i nomi dei macellai messicani. E il governo, suggerisce Francesco Caruso, deputato Prc, si prenda le sue responsabilità: «Rimuovendo e non promuovendo».