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I buchi neri del processo Diaz Chi vuole coprire Fournier?
Nel racconto ad effetto del vicequestore e nelle testimonianze delle ultime settimane la trappola del «processo sbagliato». Il responsabile della catena di comando davanti alla scuola sarebbe l'unico dirigente archiviato. E le responsabilità del pestaggio non pesano con più forza sul reparto mobile romano. Quanto rischia il processo alla «macelleria»
Sara Menafra
Fonte: Il Manifesto (http://www.ilmanifesto.it)
16 giugno 2007

Ha ricevuto applausi, complimenti e strette di mano il vicequestore Michelangelo Fournier che tre giorni fa si è presentato in aula a Genova. Eppure chi conosce bene le carte dei processi genovesi a sentirne parlare alza lo sguardo perplesso. E ti fa notare che dove potrebbero far male davvero, dove potrebbero colpire i protagonisti del pestaggio della Diaz, le parole del vicequestore non arrivano.
Il racconto di Fournier è vivido e, indubbiamente, apre degli squarci di verità. Per quella espressione «macelleria messicana», pronunciata già durante l'inchiesta, ma che ripetuta in aula da un poliziotto che ancora oggi comanda il reparto mobile romano fa un certo effetto. E perché - e qui ci avviciniamo al cuore del processo, in cui i vertici della polizia sono accusati di falso e calunnia - se «non esclude» che alcuni dei manifestanti che si trovavano nella scuola abbiano opposto resistenza, e quindi non smentisce del tutto gli autori del verbale fasullo seguito alla perquisizione, sembra veramente stupito quando in aula qualcuno gli fa notare che persino Melanie Jonash, la ragazza che dice di aver cercato di proteggere urlando «basta, basta», era stata accusata di essere una degli agguerriti rivoltosi che cercavano di impedire l'ingresso degli agenti. Infine, ammette che chi fa parte della polizia può mentire, rimanere in silenzio anche per sei anni.
Il cinturone nero
Quando stringe il campo, però, il racconto di Fournier si perde. Il video realizzato da Indymedia sull'ingresso nella scuola è un atto di accusa pesante sul suo reparto, il settimo, quello con il cinturone nero ed il casco lucido. Sono stati i primi ad entrare nell'edificio e quindi le lesioni sono imputate a tutti i capisquadra del reparto: le indagini non sono mai riuscite a svelare quali agenti si accanirono, di sicuro nella scuola ce ne erano molti oltre agli uomini guidati da Canterini e Fournier. Sulle responsabilità del Settimo il vicequestore svicola e del gruppo di agenti che si avventa su Melanie ricorda poco. Di certo non è mai stato in grado di identificare i volti degli agenti e neppure ci ha provato. Però il cinturone lo ricorda: «Due erano col cinturone bianco, altri due con le pettorine, non erano del mio reparto». Ieri in una intervista alla Stampa ha ripetuto il concetto: «Io non ho visto i miei uomini picchiare nessuno. Altrimenti non avrei dovuto togliermi il casco per fermarli, sarebbe bastato richiamarli con il laringofono, il sistema di collegamento nel casco». E aggiunge che non è neppure vero che i suoi sono entrati per primi: «Altri erano già entrati prima di noi». Sarà. La maggior parte delle vittime del pestaggio sentite durante il processo, però, hanno parlato di «cinturone nero» e «casco lucido», dunque degli uomini di Canterini e Fournier.
Dieci giorni fa Vincenzo Canterini, il suo superiore dell'epoca, aveva raccontato di aver visto ben poco di quel che era accaduto nella scuola. In una intervista ieri a Repubblica ha aggiunto che nella scuola c'era una «macedonia» di polizia: «Nella scuola entrarono almeno in 300, i miei uomini erano solo 70. Poi c'erano i colleghi di altri reparti celeri, identici a noi per abbigliamento se si eccettua il cinturone bianco. C'erano agenti con l'Atlantica, agenti delle squadre mobili con pettorine e casco, poliziotti dell'anticrimine». Fournier e Canterini sono imputati per lesioni e dunque hanno il «diritto» di mentire durante il processo, come ogni imputato. Ma se passasse la loro versione dei fatti vincerebbe la versione che piace alle difese: quello in aula è il processo sbagliato. I colpevoli ci sono. Fuori, però.
La catena di comando
La tesi del «processo sbagliato» è al centro anche di un'altra ricostruzione. L'ha portata in aula l'ex questore di Genova Francesco Colucci, indagato per falsa testimonianza: non sarebbe più vero che nella notte del 21 luglio di fronte alla scuola genovese nessuno sapeva chi fosse veramente a capo della catena di comando. Il capo era Lorenzo Murgolo, l'ex vicequestore di Bologna archiviato all'epoca perché nessuno aveva dato importanza alla sua presenza (il prefetto Andreassi dice di avercelo mandato lui perché osservasse quel che accadeva e gli riferisse, ma senza nessun compito). Canterini, in aula ma non durante le indagini, ha ripreso questa versione arricchendola di particolare. Se questa ricostruzione passasse bisognerebbe aprire una nuova indagine e, fatalmente, assolvere i vertici della polizia oggi a processo. Con un inconveniente: una indagine aperta ora sarebbe condannata alla prescrizione. E la «mattanza messicana» potrebbe finire con due colpevoli: uno (archiviato, ma poi magari indagato e prescritto) e l'altro, il prefetto Arnardo La Barbera che tutti citano, morto già da alcuni anni.