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Libro del magistrato Giovanni Spinosa sulla Uno Bianca: "L'Italia della Uno Bianca"
Articolo di Lorenzo Lamperti
Fonte: Affari Italiani, 18 marzo 2012
18 marzo 2012

"I Savi erano l'ultimo anello di un vasto disegno della criminalità organizzata". Giovanni Spinosa, presidente del Tribunale di Teramo ed ex pm alla Procura di Bologna, e sceglie Affaritaliani.it per parlare del suo libro "L'Italia della Uno Bianca".

Spinosa racconta una verità diversa da quella ufficiale: "Ho deciso di scriverne adesso perché non ne potevo più di tutte le bugie. Media e giustizia si sono appiattiti su una versione semplicistica. Nessuno ha avuto la forza di andare a fondo. Si è preferito credere alle confessioni dei tre fratelli piuttosto che all'evidenza dei fatti. I loro delitti fanno parte dello stragismo mafioso del decennio 1984-1993".

Dalle bombe di Pippo Calò sul rapido 904 agli attentati di Milano, Firenze e Roma, Spinosa fa un inquietante ritratto degli avvenimenti di quegli anni. "La trattativa Stato-mafia? Se vieni a patti una volta con i criminali, lo fai per tutta la vita". E a proposito della sentenza della Cassazione su Dell'Utri: "Sono senza parole. Mi sembra impossibile sostenere che il concorso esterno in associazione mafiosa non esiste. La mafia è una cosa concreta. Ma spesso in questo Paese si preferisce chiudere gli occhi e fare finta di niente".

Sono passati 17 anni dall'ultima azione della banda della Uno Bianca. Perché scrivere ora questo libro?

"Ho iniziato a occuparmi della Uno Bianca nel 1988, quando ero alla Procura di Bologna. Ho sempre seguito una certa strada, sono sempre stato convinto che le loro azioni si inserissero in un contesto criminale molto più ampio. Questo anche se all'inizio non era facile collegare tutte le vicende. Quando sono stati arrestati i fratelli Savi, fin dai primi interrogatori fui convinto che dicessero un sacco di bugie. Al processo per l'eccidio del Pilastro capii che avevo ragione.
La sentenza diede ragione alla mia tesi, ovvero che i Savi rientravano in un grande disegno della criminalità organizzata nel quale facevano parte personaggi contigui alla trattativa con i servizi segreti per la liberazione del camorrista Cirillo. Tutto questo viene scritto nella sentenza e io pensavo di avercela fatta, di essere riuscito a scardinare l'interpretazione che si era data della Uno Bianca. Poi mi sono accorto che non era così. A quel punto mi sono reso conto che non c'era più spazio, ho restituito tutte le deleghe e non mi sono mai più occupato della vicenda.
Non ho mai letto un libro o visto film, niente di niente... quando vedevo degli articoli sui giornali chiudevo gli occhi e andavo oltre. Poi due anni fa mi hanno proposto un'intervista per una trasmissione televisiva e mi sono lasciato convincere. Per me è stato molto difficile sul piano umano risalire la scaletta e prendere dal mio ripostiglio le fotocopie di tutti gli atti della Uno Bianca. Poi però non si è più fatto vivo nessuno. Nonostante questo, il programma l'hanno fatto comunque e ancora una volta ho visto le solite banalità. Mi sono cadute le braccia. A questo punto ho pensato che avevo il dovere di scrivere qualcosa. Davvero. Non sono uno scrittore, e dopo questo non scriverò altri libri. Scrivo e voglio continuare a scrivere solo atti giudiziari".

Perché media e giustizia si sono appiattiti su una versione, come la definisce lei, "semplicistica" sulla vicenda Uno Bianca?

"Non lo so, non l'ho mai capito. Il giorno che uscì la sentenza del processo Medda il giudice venne autorizzato a fare una conferenza stampa nel quale disse: "Crediamo che i Savi fossero al Pilastro insieme a soggetti legati ad ambienti camorristi". Lo ha detto pubblicamente. Io non so come sia stato possibile fare finta di niente. Credo ci siano anche dei fattori psicologici da tenere in considerazione. Non si vedeva l'ora di risolvere la questione perché la gente aveva paura. Ma non si è tenuto conto di dati di fatto inconfutabili. Dal 1984 all'Italia c'è uno stragismo mafioso.
Si è voluto a un certo punto andare dietro alle piste eversive e al concetto delle "schegge impazzite" che ripercorrono Gladio, la banda del Brabante Vallone e tutto il resto. Dimenticando che dalle bombe sul rapido 904 del 1984 messe da Pippo Calò lo stragismo è legato alle azioni della mafia. Poi può essere anche eversivo, ma il primo aggettivo da mettergli di fianco è senza dubbio mafioso. È uno stragismo diverso da quello precedente. Le bombe di piazza Fontana e piazza della Loggia erano azioni golpiste. Ma dal 1984 lo stragismo mafioso ha pochi golpe da fare visto che in buona parte lo Stato sono loro. Era evidente che i Savi si inserissero all'interno di un ingranaggio molto più vasto e complesso".

Com'è possibile che nei vari processi si sceglie di credere sempre alle confessioni dei Savi e tralasciare invece le parecchie testimonianze di cittadini e vittime delle rapine o violenze?

"La risposta alla sua domanda è una frase di Roberto Savi. A un certo punto il perito Farneti smentisce la ricostruzione che sta facendo di una delle loro rapine e lui risponde: "Farneti può dire quello che vuole, perché solo chi c'era può dire quello che è successo". Questa frase è stata come un macigno messo sopra le indagini. Allora o si ha la capacità di operare una lettura organica e di cogliere i fatti nel loro insieme e vedere come messi uno di fianco all'altro hanno una coerenza, oppure l'affermazione di Savi ti tappa la bocca ed è impossibile avere la forza di controbattere. Era difficile, davvero difficile, andare contro il comune senso di liberazione che c'era nel pensare di aver trovato i colpevoli. Era complicato dire: "Fermi tutti, non è vero niente". E invece i Savi avevano messo in atto una radicale organizzazione del depistaggio".

Che ruolo hanno allora i Savi nella storia della Uno Bianca?

"Sono l'ultimo anello. Ci sono degli episodi clamorosi, dove è evidente che c'è qualcosa che passa sopra le loro teste. Una volta dicono di aver parcheggiato l'auto in un posto ma viene ritrovata da tutt'altra parte. Un'altra volta viene ritrovato nella loro auto il bossolo di un revolver che i Savi non hanno mai avuto. La Corte d'Assise deve arrivare a ipotizzare che il bossolo è stato esploso da un'arma rubata dai Savi durante una rapina dei quali entrambi hanno perso il ricordo e della quale non c'è traccia. E rubare una calibro 357 non è una cosa che passa molto inosservata. In molti casi i Savi non erano nemmeno consapevoli di quello che stava accadendo".

Che cosa ci guadagnano a confessare colpe non loro?

"I Savi sono segnati. È dal 30 gennaio 1988 che la loro condanna all'ergastolo è inevitabile. La domanda da fare allora è un'altra: 'che cosa sarebbe cambiato se loro avessero detto che si erano limitati a fornire le armi?'. Dal punto di vista giudiziario, avrebbero comunque avuto l'ergastolo. Ammettere di aver agito insieme a personaggi della criminalità organizzata poteva portargli il rischio di un regime carcerario più duro. Senza contare l'argomento dei benefici penitenziari: chi viene condannato per reati di mafia deve dimostrare la rottura dei rapporti con il mondo esterno. Loro invece oggi non devono dimostrare nulla perché ufficialmente hanno fatto tutto da soli. E poi non si dimentichi che a un certo punto i Savi provano a parlare. Dopo il primo ergastolo Roberto dice che ha raccontato una valanga di bugie. Lo ripete anche Alberto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere facendo anche dei nomi di personaggi di Poggiomarino. Ma non è stato fatto niente per indagare. La versione della banda famigliare era troppo comoda".

Nell'estate 1993 le principali città italiane vengono colpite dalle bombe: Milano, Firenze, Roma. Come mai Bologna viene risparmiata?

"Perché Bologna aveva la Uno Bianca. Mi venne immediatamente in mente in quell'estate. Quando nel novembre dell'anno dopo vengono preso i Savi ho capito tutto. Poi recentemente vengo anche a sapere che per gli attentati di quel luglio erano state usate della Fiat Uno. C'è addirittura un pentito che racconta che a costo di rubare una Fiat Uno è arrivato fin sotto una questura. Qualcosa vorrà dire".

Come ha reagito quando è stato isolato all'interno della Procura di Bologna?

"Io sono un magistrato, e lavoro in un ufficio gerarchico. Ho capito che la mia linea non era condivisa e mi sono tolto di mezzo. Per me è stata una sofferenza, non volevo andarmene via. Però sentivo davvero di essere diventato una specie di capro espiatorio, anche per gli organi di stampa".

Pensa che qualcuno possa definire il suo libro come "complottista"?

"L'esplosivo del 1984 è lo stesso delle bombe degli attentati di via D'Amelio e di Capaci. Questi sono dati di fatto. Io credo di aver dimostrato con molteplici fatti che i Savi non erano soli e che hanno preparato un depistaggio gigantesco. Non volerlo capire significa rassegnarsi a non scoprire la verità su una pagina oscura della storia del nostro Paese. L'esistenza di un complotto sta nei fatti e non nei libri".

Recentemente è uscito Occhipinti dal carcere, uno di quelli che avrebbero aiutato i Savi nelle loro rapine. Pensa che il caso si possa riaprire?

"Spero sinceramente di sì. E ci credo, anche".

Lei è stato uno dei primi a indagare sulle infiltrazioni mafiose al Nord. Trent'anni fa quanto era difficile affermare che la criminalità organizzata si stava estendendo anche nelle regioni settentrionali?

"Ma guardi, vada dalle parti di Sassulo, di Reggio Emilia o di Modena. La presenza della mafia sul territorio è fortissima, l'economia la controllano loro. Se vogliamo dirla tutta, la vicenda della Uno Bianca ha avuto come effetto collaterale anche quello di bloccare tutte le indagini a questo proposito. Nel 1984 quando esplodono le bombe di Pippo Calò sul rapido 904 stavo indagando su tale Salvatore Rizzuto. Rizzuto era un fedelissimo di Calò e grazie all'interruzione dell'inchiesta è riuscito a portare a termine un affare spaventoso che lo ha fatto diventare il re di tutte le bische della Romagna. La mafia al Nord è di casa. Io oggi lavoro a Teramo, ma gli amici che ho lasciato in Emilia mi dicono: "Le stiamo prendendo dappertutto".

Si parla molto del concorso esterno in associazione mafiosa dopo la decisione della Cassazione di far ripetere il processo d'appello a Dell'Utri. Lei come interpreta quello che ha detto il pg Iacoviello?

"Guardi, davvero.... sono senza parole. Mi sembra impossibile che un uomo della cultura di Iacoviello possa affermare che il concorso esterno in associazione mafiosa non esiste. Questo reato non è un'astrazione dei giuristi, ma è una cosa concreta. Se io le dò una dritta per una rapina e lei la fa, siamo colpevoli entrambi. Lei per aver compiuto la rapina, io per aver concorso a fargliela fare. Anche per l'associazione mafiosa funziona così. Se si capisce che la mafia è una cosa concreta, fatta di riti, gradi, vincoli allora si capisce anche perché esiste l'articolo 110 del codice penale".

Negli scorsi giorni nelle motivazioni di una sentenza si afferma, al di là di ogni dubbio, che una trattativa tra Stato e mafia è esistita. Ma secondo lei si è mai conclusa?

"Questo non lo so. Però posso dire che quando si scende a patti una volta con i mariuoli, siano essi mafiosi o di qualsiasi altro colore o vestito, lo si fa per tutta la vita".