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Tortura e indulto: i successi del 2006
Patrizio Gonnella (Presidente Associazione Antigone)
Fonte: Aprile on-line, 26 dicembre 2006
26 dicembre 2006

Quest'anno sono stati approvati dal Parlamento due importanti provvedimenti che lasciano sperare in un 2007 ricco ancora di grandi conquiste per lo Stato, la democrazia e il sistema carcerario. Non rimane che attendere.

A fine anno i giornali si affannano a proporre consuntivi, a fare classifiche. Si racconta quello che è accaduto, si scrive di personaggi o eventi dell'anno. L'indulto è stato l'evento politico del 2006. I sondaggi hanno detto che ha fatto perdere consensi al governo. I quotidiani hanno evidenziato che ha determinato un aumento della criminalità. Di Pietro e La Russa gli hanno affibbiato, pregiudizialmente, la colpa di tutto quello che è accaduto di tremendo.

L'indulto è stato un atto necessario di coraggio che la classe politica (quasi tutta) ha prima votato e poi pavidamente e rapidamente disconosciuto. Grazie all'indulto le carceri italiane sono provvisoriamente tornate nella legalità. Il numero di detenuti è ora inferiore al numero di posti letto. Forse, ancora per poco. Non perché stanno rientrando gli indultati, ma perché non sono state ancora abrogate (parzialmente o totalmente) quelli leggi (Bossi-Fini sull'immigrazione, Fini-Giovanardi sulle droghe, ex Cirielli sulla recidiva) che producono penalizzazione e carcerazione di massa. Il dibattito estivo e autunnale sulla giustizia è stato il peggiore dei dibattiti possibili. Se dovessimo trarne le conseguenze non ci sarebbe più spazio per quelle riforme che nel programma dell'Unione sono scritte a caratteri cubitali. Il Ministro Mastella si è preso gli strali di tutti i securitari e gli opportunisti del mondo. Speriamo che ora non ne assecondi gli spiriti custodialistici, illiberali e forcaioli.

Il secondo degli eventi di quest'anno è giusto di qualche giorno fa: l'approvazione a Montecitorio della legge che introduce nel codice penale il reato di tortura. Un provvedimento che ci si aspettava dal 1984 quando entrò in vigore la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Il testo approvato alla Camera prevede che, per il delitto di tortura, sia punito da tre a dodici anni chiunque "con violenza o minacce gravi, infligge ad una persona forti sofferenze fisiche o mentali allo scopo di ottenere da essa, o da una terza persona, informazioni o confessioni su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettato di aver compiuto.

Ovvero allo scopo di punire una persona per l'atto dalla stessa o da una terza persona compiuto o è sospettato d'aver compiuto ovvero per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale. In caso di morte, pena raddoppia. La pena è aumentata se il reato di tortura viene commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. La pena è aumentata se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima; è raddoppiata se ne deriva la morte."

È un testo non del tutto fedele alla definizione presente nel Trattato Onu. Mancano le condotte omissive, manca il Fondo per le vittime della tortura. Eppure nei giorni successivi all'approvazione, avvenuta quasi all'unanimità (con la sola eccezione delle Lega), gli unici due editoriali di commento (a parte l'entusiasmo di associazioni quali la nostra o Amnesty International) esprimevano scetticismo. Carlo Federico Grosso, a sorpresa, sulla Stampa, e Ennio Fortuna, meno a sorpresa, su Italia Oggi, hanno più o meno entrambi detto, il primo richiamando Derschowitz, il secondo la lotta al terrorismo, che è pericoloso per lo Stato limitarsi nelle proprie potestà investigative.

La questione è la sofferenza psicologica. L'avvocato Grosso e il giudice Fortuna dicono la stessa cosa: i pubblici ministeri non devono subire costrizioni nell'esercizio del loro mestiere. Questo è un ragionamento pericoloso per lo stato di diritto, perché significa che alcuni, nell'interesse di tutti, non sarebbero soggetti a regole. La sofferenza psichica può essere più dolorosa di quella fisica. Si pensi alle reiterate minacce di morte o di violenza a parenti, all'isolamento continuo, alla separazione forzata o alla detenzione non comunicata. Producono sofferenza psichica.

Se tutto dovesse essere quantificato dal superamento di una soglia di dolore fisico, allora sarebbe facile evitare di incorrere nel crimine di tortura. Quelli che lasciavano i dissidenti argentini al buio per giorni, quelli che sputavano sul Corano, quelli che costringevano alla nudità umiliante erano torturatori. Speriamo che al Senato, e questo è un auspicio per il 2007, non ci si faccia troppo condizionare da paure, cautele, preoccupazioni che metterebbero a rischio lo stato dei diritti umani nel nostro Paese.