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Stefano Cucchi, quello che Marino non ha potuto dire
Checchino Antonini
16 marzo 2013

Perché Ignazio Marino s'è sottratto alla convocazione, come consulente della parte civile, al processo per l'omicidio di Stefano Cucchi? I legali della famiglia del ragazzo stritolato tre anni fa dall'intreccio di malapolizia, carcere e malasanità, hanno ipotizzato, nell'udienza del 13 marzo, che ci fossero state pressioni sul luminare della medicina e senatore del Pd. La pm Loy - ormai in rotta di collisione con la parte civile - ha replicato con la minaccia di una denuncia per calunnia ai legali, Fabio Anselmo e Alessandro Gamberini. Ma cosa avrebbe dovuto riferire il "consulente" Marino?

Va ricordato che il senatore appartiene a quella schiera di politici bipartizan che vollero prendere parte a foto di gruppo con Ilaria Cucchi, quandò scoppiò il caso. E tutti a giurare che non doveva succedere mai più. E perfino si fece una commissione parlamentare sull'efficacia di un sistema sanitario nazionale che, sul corpo del trentunenne, rivelò al Paese molti dei suoi lati oscuri. Anche se non figura più nel curriculum di Marino sul proprio sito, quella commissione studiò soprattutto il caso Cucchi.

Marino, una celebrità nel campo dei trapianti prestata alla politica, ne fu il presidente. E avrebbe dovuto spiegare all'Aula bunker di Rebibbia, dove è in corso il processo, proprio i risultati di quella commissione della scorsa legislatura. Nel resoconto stenografico del 10 febbraio di tre anni fa, ad esempio, è scritto chiaramente che «... un trauma significativo in certe condizioni che lo rendevano suscettibile in termini di reattività all'ambiente che lo circondava, si può indubbiamente ritenere in ragione di questo, il trauma possa avere avuto il ruolo non di causa ma di motivo che ha indotto il paziente a reagire in un certo modo piuttosto che in un altro. Vorrei azzardare un'ipotesi: intimidito dal pregresso trauma, il paziente ha pensato di organizzare una propria risposta agli eventi opponendosi alla terapia e a una corretta alimentazione e idratazione. Vedrei la questione in questi termini».

Ecco cos'avrebbe potuto spiegare il senatore-chirurgo, possibilmente uscendo dall'involuto linguaggio medical-politichese. Perché questo nesso tra le ossa rotte, le vertebre, di Stefano Cucchi e il suo seppellimento preventivo al "repartino" del Pertini, è cruciale nel determinare le cause della morte. Tornando alle carte della commissione, è possibile leggere l'intervento della senatrice Albertina Soliani: «... in effetti si è trascurato per esempio il fatto di indagare meglio la relazione tra trauma, condizione psicologica, attività metabolica, ovvero lo stato di salute complessivo». Secondo il dottor Pascali, perito della commissione e anche nell'inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, Cucchi era depresso rispetto alle condizioni in cui si trovava. Ma nessuno fece nulla per quel paziente semiparalizzato dalle vertebre rotte e che tentava di comunicare con l'esterno. Tentava disperatamente, al punto da rifiutare cibo e cure.

Scrive la commissione nel resoconto del 9 febbraio del 2010: «... noi fin dall'inizio abbiamo capito che, in relazione alla vicenda di Stefano Cucchi, stavamo indagando anche riguardo al complesso rapporto, in merito non solo al caso specifico ma anche più in generale, tra la sanità e il carcere, tra i codici, le categorie, i comportamenti dell'ambito del Ssn e quelli che sono propri della struttura penitenziaria, sia in senso proprio sia quando si tratta di una struttura protetta di tipo sanitario come quella del Pertini». Un rapporto che alla commissione parve «come qualcosa di irrisolto, nel senso che può determinare esiti negativi».

La reazione di Stefano Cucchi era «tipica» e la commissione lo aveva capito scoprendo che, pochissimi giorni dopo la sua morte, nello stesso repartino, un detenuto-degente marocchino aveva adottato lo stesso atteggiamento di Stefano: sciopero della fame finché non fosse riuscito a parlare col suo legale. «Dopo la vicenda di Cucchi vi è stato un certo zelo per dare informazioni, per fare in modo che il paziente detenuto parlasse con l'avvocato...». In questo caso, però, il detenuto ebbe una visita psichiatrica tempestiva, venne sollecitato l'intervento del suo legale e, finalmente, il diario clinico potè riportare la fatidica annotazione: «A pranzo si è alimentato correttamente». A Stefano questa possibilità fu negata.

Perché Cucchi era stato abbandonato a sé stesso? Per Marino, il 9 febbraio 2010, «questa sottovalutazione è molto seria perché è come se si chiudessero dei canali, il che porta all'isolamento ulteriore del paziente e alla difficoltà della struttura di farvi fronte, mentre la domanda finale è: ma se avessero contattato l'esterno, se fosse venuto l'avvocato, il magistrato, il Ceis, forse le cose potevano andare diversamente?».

Risponderà il giorno appresso Pascali: «La mia impressione è che questa forma di isolamento, che ha inciso in senso causalistico, abbia creato le condizioni di rifiuto delle cure (almeno di un certo genere di cure) del signor Cucchi».

Tutto è riportato nero su bianco nelle carte della commissione Marino. Perché chi la volle e la presiedette non ne ha voluto parlare in tribunale?