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Il calvario nel diario della clinica. "Così l'hanno lasciato morire"
Carlo Bonini
Fonte: Repubblica, 14 novembre 2009
14 novembre 2009

Stefano Cucchi ha cominciato a morire in un sotterraneo, dunque. Sul pavimento delle camere di sicurezza del Tribunale. Dove il 16 ottobre, tra le 9.30 e le 12.30, tre agenti della polizia penitenziaria gli hanno spezzato la schiena a calci e pugni prima ancora che un giudice lo processasse. Eppure, questa verità, che dobbiamo al coraggio di un giovane detenuto africano, S. Y. (di cui "Repubblica" ha dato conto qualche giorno fa), non chiude la storia. Perché a finire il lavoro avviato dai tre uomini in giubba blu - Nicola Minichini, Corrado Santantonio, Antonio Domenici - è stata la "negligenza", "imperizia", "imprudenza" di tre uomini in camice bianco.

Medici della "struttura protetta" dell'Ospedale "Sandro Pertini". Il primario del reparto, Aldo Fierro. Due dei suoi "specialisti", Stefania Corbi e Rosita Caponetti. A documentarlo è uno scartafaccio che la Procura della Repubblica ha acquisito agli atti dell'inchiesta. Fogli prestampati con il logo - un lucchetto - scelto da questo tipo di struttura sanitaria per distinguersi da altre. Annotati nella grafia a tratti incomprensibile che molti medici esibiscono come vezzo. È il diario clinico del "paziente Cucchi Stefano, nato a Roma l'1-10-78". Dei suoi cinque giorni di ricovero nella corsia di ospedale che è stata la sua tomba. Del lavoro di chi - accusa oggi la procura - chinandosi al suo capezzale ne ha sottovalutato la sofferenza fisica e psicologica, fino "a lasciarlo morire".

Leggiamo.
È il 17 ottobre, un sabato. Alle 19.45, Stefano viene "accettato" nella "struttura protetta" del "Pertini". Arriva in ambulanza dal "Fatebenefratelli", l'ospedale in cui è stato rapidamente trasferito dal carcere di Regina Coeli e dove gli sono state diagnosticate, con le profonde ecchimosi al volto, le fratture della vertebra L3 e di quella del coccige. Per i suoi 31 anni, è uno scricciolo d'uomo (arriva a stento ai 50 chili), ha avuto problemi di tossicodipendenza, è in evidente stato di alterazione emotiva. Non mangia da almeno due giorni. Ma la "scheda infermieristica" con cui viene avviato in corsia se dà atto che "il paziente, in ragione delle fratture alle vertebre, è completamente allettato e immobile", certifica tuttavia che "la percezione sensoriale non è limitata e lo stato di nutrizione eccellente". Non c'è uno straccio di anamnesi. Non un riferimento ai suoi problemi di epilessia.

Lo sistemano nel "letto numero 16" e, il 18 ottobre, lo visita una prima volta la dottoressa Stefania Corbi, 38 anni, che l'albo dei medici segnala "specialista in oncologia". "Paziente molto polemico - scrive - Si gira con la testa mantenendo la posizione prona. Si convince a farsi visitare, ma è comunque scarsamente "collaborante"". Quel "collaborante" al posto di "collaborativo", segnala il lapsus linguistico-carcerario di un medico di cui si indovina l'approccio. E le sbrigative conclusioni. "Il paziente presenta verosimile ematoma regione glutea sinistra (dove lo hanno preso a calci ndr.) e vistoso ematoma ed ecchimosi preorbitaria sinistra. Rifiuta di continuare a parlare. Impossibile proseguire. Somministrare "Contramal" (un analgesico ndr.) al bisogno".

Il 19 ottobre, un secondo medico (la firma è illeggibile) torna ad accostare il letto di Stefano. Con annotazioni che documentano come, a distanza ormai di oltre 48 ore dalle fratture alla schiena, nessuno si sia ancora preoccupato di "stabilizzare" il corpo di quel ragazzo. "Paziente non accessibile al colloquio - si legge - Rifiuta visita". Epperò "si consiglia una consulenza ortopedica" che, evidentemente, ancora non si è trovato il modo di fare. Stefano è una mummia di dolore. "Condizioni generali scadute. Viva dolorabilità alla digitopressione, compatibile con diagnosi fratturativa di L3 recente. Algia sacrococcigea viva. Paziente in decubito. Si consiglia rx tratto lombare su L3. Da rivedere dopo rx".

Il 21 ottobre, dopo che le ventiquattro ore precedenti sono state riassunte in una sola riga ("Il paziente rifiuta la visita"), in corsia è di nuovo la dottoressa Stefania Corbi. "Si propone nuovamente al paziente reidratazione endovenosa - scrive - Ma il paziente rifiuta perché vuole prima parlare con il suo avvocato e con l'assistente della comunità Ceis. Rifiuta anche di alimentarsi, come sta facendo sin dall'ingresso per lo stesso motivo. Per lo stesso motivo rifiuta anche di effettuare ecografia dell'addome".

Stefano Cucchi pesa ormai meno di 40 chili. E gli sono rimaste dodici ore da vivere. Il volto e il corpo scheletrico dell'uomo nel "letto 16" che la dottoressa ha davanti è esattamente lo spettro che verrà documentato dalle foto scattate al cadavere il giorno successivo. Ma la vista di quel teschio non deve allarmarla più di tanto. Perché se è vero che, a margine di questa pagina del diario clinico, uno sgorbio di firma che sembrerebbe quella della Corbi, segnala che "in accordo con il direttore dottor Fierro si predispone relazione clinica da inviare al magistrato" (documento che mai partirà per il Tribunale), è altrettanto vero che medico e paziente stanno per avere la loro ultima discussione. Che dice tutto su come vadano le cose lì dentro. Scrive la Corbi. "Il paziente accetta comunque idratazione orale. Ha un atteggiamento oppositivo e diffidente. È polemico sul vitto, affermando di non poter mangiare riso, patate e carne, in quanto celiaco, come gli sarebbe stato comunicato dal medico che gli ha diagnosticato la malattia. Si cerca di spiegare al paziente che quegli alimenti non sono affatto contenenti glutine e possono essere assunti tranquillamente da pazienti affetti da celiachia. Ma appare diffidente. Si consegna al paziente la lista degli alimenti privi e contenenti glutine scaricata dal sito (internet ndr.) dell'associazione italiana celiaci".

Il "polemico", "oppositivo" e "diffidente" Stefano affronta la sua ultima notte con il consiglio di mangiare riso, pasta e carne e la lista dell'associazione italiana celiaci sul comodino. Alle 6.15 del 22 ottobre, il suo cuore schianta. Senza la presenza di un solo rianimatore. Ma - annota la Corbi - circondato "da personale infermieristico impegnato in manovre di rianimazione fino alle 6.45, ora del decesso".