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La "normalità" del carcere, popolato da uomini e donne come noi
Ignorati dai media, in realtà sono diversi i libri usciti recentemente che trattano "controcorrente" il problema della detenzione. Da "Frammenti di vita prigioniera" di De Robert a "Il terzo strike" di Grande fino a "Punire i poveri" di Wacquant
Daniele Barbieri
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)
29 giugno 2007

«Persone, non reati che camminano, ripensare la pena». Poche settimane fa dentro il carcere Due Palazzi di Padova giornalisti, politici, magistrati, studiosi e detenuti si sono incontrati per una importante "giornata nazionale di studi" così intitolata. E' stata la giornalista (del tg-2) Daniela De Robert a condurre il dibattito: da anni è volontaria a Rebibbia e l'anno scorso ha pubblicato da Bollati Boringhieri Sembrano proprio come noi. Frammenti di vita prigioniera . E' uno dei rarissimi libri che parla di galere con una conoscenza diretta e con curiosità non velata da ideologie. La spiegazione del titolo è in questo sintomatico racconto iniziale: «In carcere ci sono persone normali, uomini e donne come noi, ed è questo che colpisce subito nell'entrare per la prima volta. E' uno schiaffo che arriva violento [?] quando cerchi qualcosa di straordinario e incontri l'ordinario.». E poche righe dopo De Robert ci agghiaccia con quest'altro piccolo squarcio di carcerati e carcerieri: «Discutendo con un operatore del carcere, gli raccontavo l'emozione di un detenuto senza famiglia quando per la prima volta dopo tanti anni aveva visto di nuovo bambini correre, giocare, ridere. La sua risposta è stata: "Magari era un pedofilo". Forse i sentimenti dietro le sbarre fanno paura anche a chi li deve custodire». O forse le gabbie stanno soprattutto nelle teste.
Il bel libro della De Robert non ha avuto dai cosiddetti grandi media l'attenzione che meritava. Troppo controcorrente. Una ossessiva campagna stampa ora suggerisce e ora urla l'idea che chiunque si trovi a commettere crimini - evidentemente non quelli dei "colletti bianchi" per i quali c'è un trattamento di riguardo che oscilla fra omissioni e strizzata d'occhio - sia molto diverso da "noi", se non addirittura un mostro. E che il recupero sia impossibile. Negli Usa la convinzione che se sbagli un paio di volte allora è meglio buttare via la chiave? è diventata legge: «Three Strikes and You're Out» è l'espressione del baseball per indicare che al terzo colpo mancato il battitore viene eliminato ma ora è anche la regola con cui chi è ritenuto colpevole di tre crimini considerati gravi automaticamente viene condannato al carcere a vita, senza possibilità di condizionarle. Elisabetta Grande ha appena pubblicato, per Sellerio, Il terzo strike: la prigione in America , un libro importante anche perché molti considerano gli Usa, soprattutto per quel che riguarda la cosiddetta sicurezza, il nostro modello futuro.
Forse vi siete distratti e dunque non avete registrato che negli ultimi decenni gli Stati Uniti si sono trasformati in una gigantesca galera. In questo caso il libro della Grande vi sconvolgerà e probabilmente vi verrà voglia di indagarne i passaggi storici e le ragioni più profonde. Bene non fatevi spaventare dalla mole e recuperate Punire i poveri: il nuovo governo dell'insicurezza sociale (Derive Approdi) di Loic Wacquant, uscito nell'ottobre scorso. Spiega nei minimi dettagli la svolta delle politiche penali in Usa negli ultimi decenni e la parallela deregulation economica. Come nei filmacci horror gli zombi che credevamo di aver sepolto resuscitano, ecco nel nostro mondo presunto razionale carceri e polizie ritrovare la loro funzione primitiva: piegare all'ordine economico - e morale - dominante. La strombazzata lotta contro la delinquenza fa da schermo alla nuova (e censurata) questione sociale: i libri di Wacquant e della Grande non lasciano dubbi al riguardo. Due conti ed è evidente a tutti: i soldi tolti alle spese sociali servono a tirar su nuove galere. Triste necessità, si obietterà, per far fronte negli Usa a un'ondata di violenza criminale senza precedenti. Macché, i reati gravi sono in calo; se si arresta di più è per reati decisamente minori per i quali in passato era prevista solo una sanzione.
Torniamo in Italia. Oltre al meritorio libro della De Robert cosa c'è da leggere di serio? A fine 2006 l'associazione Antigone ha pubblicato (con Carocci) Dentro ogni carcere , un'indagine dettagliata sui 208 istituti di pena italiani. Mentre l'ultimo rapporto - ha scadenza biennale - di Antigone andava in stampa, il Parlamento ha approvato l'indulto e dunque i numeri risultano decisamente superati. Ma l'impianto dell'indagine e le analisi restano validi. In misura minore rispetto agli Usa ma anche in Italia la popolazione reclusa è in forte aumento. Il libro si chiude con proposte per i prossimi 5 anni: «Tutto quello che di buono può venire per le carceri italiane richiede il coraggio di scelte non necessariamente popolari, come l'indulto. Ma è popolare aumentare le tasse? Eppure a volte può essere giusto e necessario».
Al dettagliato rapporto di Antigone sulle nostre galere si potrebbe affiancare un caso particolare, talmente poco indagato che Donne in carcere: una ricerca in Emilia romagna (edito da Franco Angeli) risulta il primo libro sulla specificità delle detenute - ma anche delle operatrici - fra istanze di reinserimento e pulsioni punitive o isolazioniste: un lavoro prezioso al quale avrebbe forse giovato una scrittura meno burocratica.
Questa veloce miscellanea si conclude con Studi sulla questione criminale (Carocci): nuova serie, quadrimestrale, di Dei delitti e delle pene , sotto la direzione di Dario Melossi, Giuseppe Mosconi, Massimo Pavarini e Tamar Pitch. Nel primo numero, accanto a utilissimi saggi e ricerche sulla prevenzione della devianza, sulle politiche penali della destra, sulla criminalità dei potenti o sulla mafia, c'è Suvendrini Perera a porre una domanda inquietante: «Di che sesso è il panico da confine»? Ovvero come e perché le donne finiscono nei circuiti di sicurezza dello Stato, della localizzazione «e del nuovo (e vecchio) impero»?
Ogni volta che ci si trova a ragionare seriamente sulle cause della criminalità e il modo di combatterle riemergono le questioni sociali innominabili accanto all'uso strumentale delle statistiche ma persino delle parole. I dati statunitensi se ben letti dicono che i crimini gravi scendono se salgono le spese sociali non quando - come accade dal '95 in Alabama - si torna a mettere le catene ai piedi dei detenuti. La parola più usata è sicurezza: ma perché finisce sempre in compagnia di reati e mai associata al lavoro, al reddito, all'alloggio?