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L'OMICIDIO DI ILARIA ALPI E MIRAN HROVATIN
Francesco "baro" Barilli
24 settembre 2003

(n.d.a.: l'articolo è precedente l'inizio dei lavori della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, presieduta dall'on. Taormina. I contenuti dell'articolo, conseguentemente, prescindono dalle conclusioni di tale Commissione).


20 marzo 1994. L'Italia sta vivendo ancora il "ciclone tangentopoli". Già da un paio d'anni le cronache denunciano un sistema "sotterraneo" (ma non troppo...) che inquina la vita politica ed economica italiana. Il Paese ha seguito quelle cronache con vivo interesse, scoprendosi indignato di fronte alla realtà di un apparato politco-burocratico che vive e prospera fuori dalla legalità. Ma quel giorno l'Italia è scossa da un altro avvenimento, solo apparentemente legato alla semplice cronaca nera: la giornalista del TG3 ILARIA ALPI e l'operatore MIRAN HROVATIN vengono uccisi a Mogadiscio, in Somalia.
Perché ho deciso di accostare due argomenti così distinti in apparenza, come tangentopoli ed il duplice omicidio di Mogadiscio? Perché in realtà anni di indagini e di ricerche (dovute soprattutto al coraggio dei genitori di Ilaria e alla professionalità di alcuni giornalisti) hanno dimostrato che l'omicidio Alpi/Hrovatin maturò in uno scenario sinistramente vicino a quello di tangentopoli. Ma su questo parallelo torneremo più avanti; per ora vediamo di ricostruire i fatti.


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L'AGGUATO


Già i primi "lanci" ANSA furono chiari su quanto avvenuto a Mogadiscio: un agguato in piena regola. Un commando di 7 persone armate a bordo di una Land Rover seguì, sorpassò e bloccò l'auto con a bordo i due giornalisti italiani (accompagnati da un uomo di scorta e da un autista). L'uomo di scorta e l'autista riuscirono a scendere e ad allontanarsi; Ilaria e Miran furono freddati da due colpi sparati a distanza ravvicinata (nel caso di Ilaria quasi a contatto), entrambi al capo. L'agguato avvenne poco distante dall'Hotel dove i due giornalisti erano diretti. Ricordiamo che proprio per quei giorni era previsto il ritorno in Patria del contingente italiano impegnato nella missione di pace "Restore Hope" in Somalia: da lì a pochi giorni anche la Alpi e Hrovatin avrebbero lasciato la Somalia.
Per una volta sembra che proprio la prima ricostruzione sia quella più aderente alla realtà e che, conseguentemente, la speranza di vedere individuati i colpevoli sia concreta: abbiamo un gruppo di uomini armati appostati nell'attesa dell'auto con i due giornalisti; un inseguimento; un'aggressione mirata (ripeto che le persone che accompagnavano i due giornalisti scendono illese); non esistono prove di furti o altro che sottendessero l'azione criminale; al momento dell'omicidio pressochè tutto il contingente militare italiano era già imbarcato sulla nave "Garibaldi" in vista del ritorno in Italia, ed anche questo fa pensare ad un'accuratezza nella scelta dei tempi dell'agguato. Si tratta di un'esecuzione in piena regola, insomma, eseguita con dispendio di uomini e mezzi... E ogni esecuzione ha, di norma, dei mandanti... Ma nonostante questa iniziale chiarezza la vicenda del duplice omicidio sarà destinata ad essere inquinata dalle solite "stranezze" tutte italiane, compresi i soliti tentativi di depistaggio, silenzi, errori ed omissioni.
Si arriverà alle ipotesi più disparate: un tentativo di rapimento o di rapina finito in tragedia; oppure un atto di ostilità anti-italiano (o anti occidentale) da parte di fondamentalisti islamici.
Un capitolo a parte lo merita la cosiddetta "ipotesi Aloi". Questa ipotesi rischia però di portarci fuori strada, allargando il discorso alle azioni non proprio edificanti di cui si rese protagonista il contingente militare italiano in Somalia. La affronterò quindi in seguito, nella parte in cui tenterò di ricostruire il contesto ambientale della Somalia di quegli anni.


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I DEPISTAGGI


Ma torniamo ora alle "stranezze" cui accennavo in precedenza... Queste cominciano subito dopo l'omicidio: il 22 marzo vengono consegnati ai genitori di Ilaria gli effetti personali della figlia, ma la borsa e la valigia di Ilaria non presentano tracce di sigilli, come avrebbe dovuto essere naturale. In quel momento i coniugi Alpi non possono avere la certezza che qualcosa sia stato prelevato da quei bagagli (o che qualcuno possa averli manipolati DOPO la loro sigillatura), ma già pochi giorni più tardi, consultando i colleghi di Ilaria che avevano ricomposto gli effetti personali, quella certezza si materializza: dei 5 block-notes stilati da Ilaria durante la permanenza in Somalia 3 sono spariti; così pure "spariscono" 2 fogli in cui la giornalista aveva annotato numeri telefonici, il referto medico e alcune foto delle salme scattate sulla "Garibaldi", e pure la macchina fotografica di Ilaria... E tutte queste sparizioni avvengono sull'aereo che riporta in Italia i corpi dei due giornalisti (quindi in un contesto che avrebbe dovuto garantire la massima discrezione e sicurezza). Alcuni di questi documenti non verranno mai rintracciati; altri verranno consegnati ai coniugi Alpi con mesi di ritardo, a volte adducendo scuse poco credibili (per usare un eufemismo) per la loro sparizione: è il caso dei due fogli contenenti i numeri telefonici, che vennero trattenuti dall'ambasciatore Umberto Plaja e restituiti all'allora Presidente della RAI Demattè con strascico (dopo altri mesi) di una lettera del ministro degli Esteri, Antonio Martino, che adduceva "motivi umanitari" che avrebbero portato alla decisione di trattenere momentaneamente quei documenti.
Ma questo è solo l'inizio...
Quante volte ho dovuto usare parole come quelle usate in precedenza (silenzi, errori ed omissioni), parlando di Ustica o della strage di Bologna, di Peppino Impastato come di Carlo Giuliani... Devo farlo anche stavolta, cominciando con il Gen. Carmine Fiore, il quale (probabilmente nel tentativo di difendere il comportamento proprio ed in generale del contingente italiano nell'immediatezza del fatto) giunse a fornire, in una lettera ai coniugi Alpi, una ricostruzione dell'evento non rispondente a verità e in contraddizione con il contenuto che lo stesso generale fornì allo Stato Maggiore dell'esercito con relazione del 1° giugno 94. La questione ebbe anche uno strascico spiacevole: Luciana Alpi contestò quelle falsità e quelle contraddizioni pubblicamente, ed il Gen. Fiore querelò la madre di Ilaria, generando così una situazione a dir poco paradossale: per molti mesi la sig.a Alpi divenne l'unica indagata (per diffamazione) in relazione all'omicidio della figlia, mentre ancora restavano senza un nome i protagonisti dell'omicidio. Per fortuna il tribunale decretò il "non luogo a procedere" in quanto il fatto non costituiva reato, riconoscendo esplicitamente la non correttezza delle affermazioni del gen. Fiore.
Ma l'inchiesta arriverà ad altre "stranezze". Si arriverà persino a parlare di un unico colpo vagante che avrebbe ucciso sia Hrovatin che Ilaria, con un'ipotesi che non aveva neppure il pregio dell'originalità (ricordate la teoria della pallottola impazzita nel caso Kennedy?) e soprattutto cozzava con una ricostruzione dei fatti che, per una volta, già nell'immediatezza dell'evento era apparsa chiaramente: un'esecuzione verso un bersaglio preciso e non una tragica fatalità; un'esecuzione per scopi magari ancora non del tutto chiari, ma pianificata ed eseguita con freddezza.
La teoria della pallottola unica viene esposta per la prima volta da un altro Generale (colonnello all'epoca dei fatti), Fulvio Vezzalini, che presso la Commissione Governativa istituita per i "fatti della Somalia" esclude la presenza di colpi a bruciapelo, parlando invece di "... un colpo di Ak che ha colpito la persona che stava sul davanti della macchina, il cineoperatore, ha trapassato il suo corpo, ha passato il sedile e ha preso in testa la ragazza che era accucciata dietro". Parole in contraddizione con l'esame dei corpi effettuato sulla nave Garibaldi che parlarono chiaramente di due pallottole distinte, una al capo di Ilaria e una al capo di Miran. Ma i dubbi sulla dinamica e sulla "storia balistica" dei colpi che uccisero Ilaria e Miran nascono proprio dalla superficialità delle indagini effettuate nell'immediatezza dell'evento: sul momento, infatti, venne presa la singolare decisione di non disporre l'autopsia sul corpo della giornalista. Questa decisione fu motivata dal fatto che l'esame esterno sembrava dimostrare già chiaramente che il colpo era stato sparato quasi a contatto. L'autopsia verrà disposta solo due anni dopo, quando il PM Giuseppe Pititto subentrerà nell'inchiesta.
Ma anche i soccorsi portati nell'immediato portano molti dubbi. Nonostante le diverse affermazioni del gen. Fiore, nessun militare accorre con tempestività sul posto. I primi soccorsi vengono portati da Giancarlo Marocchino, italiano ma residente da anni in Somalia, che trasporta le due vittime con la propria auto al Porto Vecchio. Su Giancarlo Marocchino si è detto molto e molto si potrebbe dire. E' solo un uomo che ha saputo galleggiare in acque pericolose per anni, con attività al limite della legalità? E' solo un personaggio colorito, che ha saputo sopravvivere (probabilmente a costo di compromessi) tra attività lecite e meno lecite? La sua presenza nei dintorni dell'omicidio è dovuta a pura casualità o Marocchino sa (o perlomeno immagina) qualcosa di più? Difficile rispondere... E neppure le immagini riprese sulla scena del delitto aiutano a sciogliere i dubbi, portandone forse altri ancora più inquietanti. Esistono immagini fondamentali di Ilaria e Miran già colpiti all'interno del fuoristrada; sono state girate da un operatore dell'americana ABC e da uno della svizzera Italiana. Il primo è stato ucciso qualche mese dopo in Afghanistan; il secondo qualche anno dopo è rimasto vittima di un incidente stradale. Forse si tratta di altri due testimoni che, purtroppo, non potranno più dare il loro apporto nella ricerca della verità...


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TRAFFICI LOSCHI


All'inizio di questo articolo ho tentato un parallelo tra l'omicidio Alpi/Hrovatin e tangentopoli; un parallelo che può essere sembrato puramente suggestivo. In realtà l'accostamento è valido anche sotto punti di vista più pragmatici: forse noi italiani siamo stati abituati a pensare che il "malvezzo" di tangentopoli fosse tutto confinato ad un giro di corruzione: appalti pilotati, tangenti ad amministratori locali o a giudici che dovevano "addomesticare" sentenze, a Finanzieri che dovevano guardare da un'altra parte... Insomma, un giro di corruzione sicuramente deprecabile, ma figlio di semplice cupidigia, quando non figlio dell'esigenza di "muovere" l'economia sottraendola ad intoppi burocratici e concretizzando guadagni facili e gonfiati. Insomma, poco più di un gigantesco giro di evasione dalle tasse, dal punto di vista etico-morale.
In realtà il "cancro-tangentopoli" era molto più complesso e si nutrì di filoni ben più sporchi e detestabili (anche se forse meno noti), come finanziamenti ed aiuti ai Paesi del terzo mondo che si tramutavano in giri di denaro per attività che di "umanitario" non avevano proprio nulla o in losche "triangolazioni economiche". Ad esempio traffici di armi verso paesi sottosviluppati che pagavano quelle armi con l'unica loro risorsa: il proprio territorio, dove occultare rifiuti tossico-nocivi (a volte anche radioattivi), nell'assoluto spregio delle normative vigenti e senza alcuna considerazione per gli effetti sulla salute delle popolazioni locali.
A questo devo aggiungere una considerazione sulla storia recente del nostro Paese: i "complotti" in Italia hanno spesso un chiaro tratto distintivo "tutto nostrano": se nel resto del mondo i complotti vengono orditi "per fare" qualcosa, in Italia i complotti spesso nascono DOPO, e sono finalizzati ad intorbidire le acque attorno a qualcosa che E' GIA' STATO commesso, sviando le indagini dal loro corso naturale. In questo modo chi vuole arrivare alla verità non deve solo domandarsi chi avesse motivi per architettare una certa azione, ma pure domandarsi chi avesse interesse ad indirizzare le indagini in un certo solco. Si deve insomma risalire tramite le informazioni false e distorte agli interessi fondamentali che stavano alla base del depistaggio nella speranza, così facendo, di scoprire pure qualcosa di utile nella ricerca della verità sul fatto in sè. E' tutto complicato e contorto, lo so, ma è quanto hanno cercato di fare i genitori di Ilaria ed alcuni giornalisti che non hanno dimenticato quale dovrebbe essere l'obbiettivo più alto della propria professione.
La tesi che in Somalia il traffico d'armi (cosa già di per sé disgustosa) si fosse saldato al traffico di rifiuti tossico-nocivi e/o radioattivi è esposta con chiarezza e grande abilità investigativa da tre giornalisti di Famiglia Cristiana. Si tratta di Barbara Carazzolo, Alberto Chiara e Luciano Scalettari, che in "Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici", edito da Baldini e Castoldi, espongono la loro teoria, realistica ed avvalorata da anni di verifiche e riscontri.
Nel libro dei tre giornalisti (e a dire il vero dalla lettura di altri documenti e testimonianze) questa teoria appare chiara; inevitabilmente nebulosa nei dettagli quanto ben distinta nei tratti essenziali: esisteva (esiste?) un'organizzazione criminale internazionale, radicata da anni fra mafia italiana e somala e faccendieri di diverse nazionalità, che sfruttava contiguità e connivenze (quando non complicità) con autorità civili e militari. Questa organizzazione ha intrecciato il complesso scambio rifiuti-armi-territori; un giro d'affari incredibile al quale anche Ilaria si stava interessando.
Per la sua ultima inchiesta Ilaria si era recata a Bosaso. Qui Ilaria aveva intervistato il cosiddetto sultano di Bosaso, Abdullahi Mussa Bogor, e si era interessata anche del caso della nave Farax Omar, una nave "regalata" dalla cooperazione Italiana alla Somalia, il cui equipaggio era stato in quei giorni sequestrato da guerriglieri somali nel porto di Bosaso. Di quella nave risultava intestataria la Shifco di Omar Mugne; ufficialmente era destinata al commercio del pesce, ma esistono sospetti fondati circa le reali attività di quella nave e delle altre facenti parti della stessa compagnia.
Ma forse è venuto il momento di interrompere momentaneamente la narrazione nel tentativo, tutt'altro che semplice, di descrivere cosa fosse la Somalia dei primi anni '90 e di costruire (pur con qualche inevitabile approssimazione) lo scenario entro cui operavano Ilaria e Miran. In questa fase affronterò pure, per dovere di cronaca, la succitata "ipotesi Aloi" relativa al caso Alpi.


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LA SOMALIA "ANNI 90", IL CONTINGENTE ITALIANO ED IL MARESCIALLO ALOI


Il periodo dei primi anni '90 in Somalia è contrassegnato da una feroce guerra tra bande. Le vicende politiche si scrivono con conflitti sanguinosi e la popolazione civile è ridotta allo stremo dalla lotta tra Aidid e Ali Mahdi, cui si aggiunge una devastante siccità.
E' in questo frangente che l'ONU decide di usare proprio la Somalia come una specie di laboratorio per sperimentare quel ruolo di "salvatore planetario" che il nuovo ordine mondiale vorrebbe assegnarle già dalla caduta del muro di Berlino. Le dichiarazioni ONU sono rassicuranti: si tratta solo di garantire sicurezza per l'arrivo degli aiuti umanitari, di una "ingerenza limitata", per così dire, negli affari interni somali. L'Italia si accoda alla missione, forse anche per riscattare un passato poco limpido in quella regione.
In realtà presto la missione si rivela più complicata del previsto: gli interessi economici dei "signori della guerra" sono troppo forti e collegati con attività di certo non edificanti di aziende e paesi occidentali; il traffico d'armi è ben lontano dall'essere fermato; gli attriti fra le bande locali continuano, trascinando nel bagno di sangue i militari della "Restore Hope". Fra la popolazione civile ed i militari invece che benevolenza e collaborazione si instaura presto un rapporto di diffidenza che scivola nell'odio. E a questo si uniscono incomprensioni fra il comando italiano e quello statunitense.
Si arriva al 2 luglio 93, quando un'operazione di normale routine e di controllo si trasforma in un'imboscata per i militari italiani. Il bilancio è pesante: tre soldati italiani restano uccisi e molti feriti. Secondo il Maresciallo Aloi (la cui figura affronteremo fra breve) quell'imboscata era dovuta al già esistente risentimento dei somali verso gli italiani. La Commissione Governativa d'inchiesta sulla "questione Somalia" giunse invece a questa conclusione: "... si era cercato di impedire una preannunciata azione di rastrellamento in una zona in cui forse si nascondevano qualificati esponenti di parte ABR-GHEDIR (etnia del generale Aidid). Un'altra causa, poi, potrebbe ricercarsi nella presenza, nell'operazione degli italiani, di circa quattrocento agenti di polizia somala di etnia diversa da quella degli abitanti la zona rastrellata". Ma poco conta che Aloi o la Commissione avessero ragione: forse l'attacco che gli italiani subirono al check point Pasta non fu la risposta a precedenti violenze perpetrate ai danni della popolazione civile locale, ma è probabile che, viceversa, quell'episodio sia stato la causa scatenante delle successive violenze effettuate per rappresaglia, trasformando di fatto la missione "di pace" in una missione "di guerra".

Ed eccoci arrivati al Maresciallo Francesco Aloi, il militare che, nel 1997, provocò molto "rumore" attorno alla già conclusa missione italiana in Somalia, aggiungendo la propria denuncia ad altre già emerse circa abusi e torture su civili somali da parte di militari italiani. In estrema sintesi le denunce di Aloi si possono riassumere così: abusi vari nei confronti di civili; traffico locale di armi (le armi sequestrate ai somali venivano rivendute ad altre fazioni del posto); diffuso utilizzo di droghe da parte di militari del contingente; la natura dei succitati incidenti del luglio 93 al check point "Pasta" (a detta di Aloi dovuti, come esposto in precedenza, alla reazione conseguente diffuse violenze commesse nei confronti di donne somale); uno stupro in particolare, al quale Aloi avrebbe assistito assieme ad Ilaria Alpi nel luglio 93, operato da militari italiani che successivamente avrebbero ordito l'omicidio della giornalista per metterla a tacere.
Quanto denunciato da Aloi effettivamente non trovò un riscontro totale, e la Commissione Governativa d'inchiesta presieduta dall'On. Ettore Gallo, Presidente emerito della Corte Costituzionale, trattò Aloi alla stregua di un mitomane o poco più. Liquidare Aloi come un mitomane è però troppo semplice. Sicuramente commise errori ed esagerazioni, non posso dire se in buona fede o spinto da spirito di protagonismo e dalla volontà di gonfiare certi fatti oltre misura. Anche restando al caso Alpi, le risposte su quanto asserito da Aloi sono molteplici. Mente? Si confonde? Cerca di "condire" un episodio vero (lo stupro) rafforzandolo con la presenza della giornalista, e cavalcando così l'ondata emotiva del successivo omicidio di Ilaria per avvalorare le proprie accuse? Tutto è possibile, ma sembra effettivamente poco credibile che Ilaria fosse a conoscenza di un fatto del genere da mesi e non lo avesse denunciato, neppure parlandone in confidenza a qualche amico-collega.
Di certo Aloi non produce solo chiacchiere: è fra i primi a denunciare pure vicende legate al traffico d'armi e all'utilizzo, a tale scopo, di navi donate dalla Cooperazione Italiana alla Somalia. E' pure uno dei primi ad individuare nel porto di Bosaso (dove Ilaria, ripeto, si era recata per la sua ultima inchiesta) uno degli snodi per questo traffico. Potrebbe però trattarsi di notizie apprese per altre vie, e potrebbe essere che Aloi abbia scelto, per rafforzare le proprie denunce, di sfruttare una conoscenza magari superficiale con Ilaria spacciandola per qualcosa di più ("parlavo spesso con Ilaria Alpi, si può dire che ero entrato in confidenza con lei..."). Questo anche perché Aloi nutriva qualche "ambizione letteraria" (voleva scrivere un libro di memorie su quanto visto in Somalia, e la tentazione di "condire" ciò di cui era effettivamente a conoscenza con qualche avvenimento ad effetto di cui sapeva solo "per sentito dire" poteva essere forte). Resta il fatto che, a mio avviso, la figura di Aloi è marginale alla vicenda e serve, ripeto, solo per inquadrare ancora più dettagliatamente il contesto tutt'altro che limpido che contrassegnò l'operato dei militari italiani in Somalia.


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PROCESSI E RESPONSABILI


Torniamo ora alla vicenda Alpi-Hrovatin. Abbiamo già accennato all'attività della Commissione Governativa sul "caso Somalia". Fra le incombenze della Commissione ci fu l'audizione di diversi cittadini somali che vennero in Italia per testimoniare le violenze a loro inflitte da militari italiani. Tra questi c'era Hashi Omar Hassan, che sosteneva di essere stato incappucciato e legato e poi gettato in mare, assieme ad altri malcapitati, da militari italiani (episodio a cui la Commissione non dette credito).
Hashi Omar Assan diventerà l'unico colpevole accertato dell'omicidio Alpi-Hrovatin, ma le modalità che conducono alla sua incriminazione lasciano più di un dubbio. Le accuse a carico di Hashi partono da un certo Ahmed Ali Rage detto Gelle (che però si renderà irreperibile e non testimonierà in tribunale) ma in seguito arrivano pure dall'autista di Ilaria, Ali Abdi.
La posizione dell'autista è quantomeno equivoca, essendosi già distinto in precedenza per menzogne o perlomeno grossolane imprecisioni: dopo soli 20 giorni dall'agguato, a due giornalisti italiani che volevano fotografare la macchina dove erano morti i due colleghi, ha presentato l'auto con foderine diverse da quelle reali; ha affermato (mentendo) che i militari erano accorsi sul luogo del delitto; non è mai riuscito a spiegare perché (nonostante la macchina non fosse danneggiata), i corpi siano stati trasbordati sull'auto di Giancarlo Marocchino per i primi soccorsi... Ma soprattutto terrà un atteggiamento equivoco durante l'interrogatorio nel quale accusò Hashi: in un primo momento dichiarò di non conoscere nessun componente del commando; successivamente (dopo una sospensione di due ore e mezza della sua audizione, dalle ore 20 alle 22 e 30) sosterrà di riconoscere come uno degli occupanti la Land Rover proprio Hashi, diventandone così (stante l'irreperibilità di Gelle) l'unico accusatore.
Un balletto di sentenze tipicamente italiano chiude, per il momento, la posizione di Hashi: il processo in primo grado si conclude il 20 luglio 1999 con l'assoluzione (il PM aveva chiesto l'ergastolo). Nel 2000 la sentenza d'appello rovescia la precedente e condanna Hashi all'ergastolo; in questa sentenza appare un elemento importante: per la prima volta viene riconosciuto ufficialmente come possibile movente l'interesse manifestato dalla Alpi sui traffici di armi e rifiuti. Ma il 10 ottobre 2001 la Corte Suprema di Cassazione, nel confermare l'ergastolo, rimanda ad un nuovo processo il compito di individuare le ragioni del duplice delitto. La pena di ergastolo verrà poi ridotta a 26 anni con sentenza emessa il 26 giugno 2002 dalla Corte d'Assise d'Appello di Roma. La sentenza è ben lontana dallo scrivere la parola fine sul caso, limitandosi a riconsiderare e a ridefinire la singola responsabilità di Hashi Omar Hassan, e lasciando oscuri i motivi che portarono al delitto.


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CONCLUSIONI


Ci sarebbero ancora molte cose da dire ed altri personaggi da presentare. "Strani" uomini d'affari collegati a esponenti dei servizi segreti; imprenditori nostrani e somali che hanno intrecciato i loschi traffici di cui abbiamo parlato in precedenza...
Purtroppo lo sviscerare anche i dettagli circa questi personaggi e il loro coinvolgimento nella vicenda è impossibile per ragioni di spazio. A chi volesse approfondire la propria conoscenza del caso "Alpi-Hrovatin" consiglio però la lettura del già citato libro "Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici", e di "L'esecuzione" di Giorgio e Luciana Alpi, Mariangela Gritta Grainer e Maurizio Torrealta, libro edito dalla Kaos edizioni, che potete anche scaricare dal sito http://www.ilariaalpi.it/ , sito che ovviamente consiglio di visitare anche per ogni altro approfondimento sull'argomento.


Francesco "baro" Barilli

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