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PER GIUSEPPE MALACARIA

Introduzione
In questo lavoro abbiamo cercato di mettere insieme i frammenti di una tragica vicenda che ha avuto differenti protagonisti: un uomo, Giuseppe Malacaria, muratore trentatreenne ucciso il 4 febbraio 1971; una città che ha dimenticato, rimosso, accantonato; uno scenario, quei primi anni settanta che restano una pagina particolarmente dolorosa della storia italiana e calabrese.
Con il nome di Malacaria molti di noi hanno fatto i conti nelle occasioni più diverse: una cena tra amici, una riunione di partito, una passeggiata nei vicoli. Ciascuno di noi ad un certo punto ha conosciuto Pino Malacaria e tutte le fumosità che hanno avvolto la sua morte. Ciascuno di noi ha provato a chiedere, sapere, capire e ha incrociato sguardi dubbiosi, è inciampato in verità soggettive e fango dispensato gratuitamente, si è arrestato davanti a silenzi rumorosi e perplessità mai risolte.
Ma non è solo la storia di un uomo ucciso che ci spinge a cercare, quanto, piuttosto, il desiderio di comprendere e ricordare. Gli amministratori di questa città non hanno mai fatto nulla per serbare memoria di quanto accaduto e così il nome di Malacaria non è diventato patrimonio di una memoria collettiva, è scivolato indifferente negli anni rimanendo imprigionato in un vicolo. E' vero che la vicenda fu dolorosa e, in qualche modo, mai risolta. E' vero che l'unico processo fu contro ignoti. E' anche vero, però, che ciò che rende una comunità tale non è la sentenza di un Tribunale dello Stato ma la condivisione di una storia comune, la capacità di far tesoro del proprio passato.
La lontananza degli eventi, l'impossibilità di reperire la documentazione processuale ci costringono ad una ricostruzione incompleta ma, comunque, sempre disponibile ad accogliere ogni pezzettino di "verità" pronto a venir fuori.

1. Memoria e giustizia
Giuseppe Malacaria è un nome che a molti catanzaresi non dice più niente. Non lo conoscono i giovani, lo hanno dimenticato tanti altri. E, quel che è ancora più grave, molti di quelli che lo ricordano lo associano a notizie imprecise, sbagliate, infamanti. Eppure Giuseppe Malacaria è morto mentre difendeva la democrazia e la libertà, mentre manifestava per i diritti di Catanzaro e contro le bombe fasciste che seminavano paura e distruzione anche nella nostra città.
Giuseppe Malacaria era un uomo semplice, lontano dagli estremismi e dalla violenza, ucciso senza aver fatto nulla di male. E poi ucciso una seconda volta, ancora senza colpa, dalle mistificazioni di chi ha avuto interesse a dipingerlo come un bombarolo distratto. E infine, ucciso definitivamente dall'indifferenza della sua città, che invece di ricordarlo con affetto ha voluto dimenticarlo.
Memoria e giustizia: ne avrebbe bisogno l'Italia. Ed in grande quantità. Ne avrebbe bisogno anche Catanzaro. Ci piace sognare che un giorno Giuseppe Malacaria possa avere giustizia, ma sappiamo che sarà difficile conoscere il nome di chi lo ha assassinato. Quello che possiamo fare, allora, è aprire uno squarcio nel silenzio, graffiare l'indifferenza stratificatasi nel tempo e riproporre il nome di Giuseppe Malacaria all'attenzione della città.
Quest'uomo è morto anche per la nostra libertà. Come tanti altri innocenti è caduto in un giorno qualsiasi e in una strada qualsiasi di questo Paese. Le altre città ricordano i propri martiri, gli intitolano le piazze, appongono e lucidano le lapidi, li omaggiano con fiori e cerimonie. Non è un esercizio retorico, è la salvaguardia della memoria, il salvataggio dall'oblio, il giusto riconoscimento all'uomo e alla storia. Noi chiediamo a Catanzaro di essere degna di quel suo cittadino e di trovare il giusto modo di ricordarlo. E' per questo che abbiamo scavato nel passato, che siamo andati a chiedere, che abbiamo spulciato tra i giornali e i fascicoli. Perché se la giustizia è un bisogno lancinante che non si acquieterà mai, la memoria è un dovere civico che richiede cura e tenacia.

2. Quattro febbraio 1971
Gli slogans, le grida, il vociare indefinito e continuo che accompagna ogni manifestazione sono interrotti da un primo fragore, improvviso, che frantuma la vetrina dell'orologeria al numero quattordici del vicoletto Vinci. La gente, in preda al panico, inizia a correre mentre altre due deflagrazioni aumentano la paura e il fuggi fuggi generale.
Un uomo, colpito, si trascina lungo il Vicoletto II Duomo e, appena svoltato l'angolo, si accascia al suolo in un lago di sangue. Quell'uomo, che si chiama Giuseppe Malacaria, arriva in ospedale presentando ferite profonde agli arti inferiori e superiori ed è subito condotto in sala operatoria, gli vengono asportati il pollice e l'indice della mano sinistra ma non c'è nulla da fare, decede per trauma cranico ed emorragico causato dallo spappolamento della coscia sinistra.
Insieme a lui, quel martedì pomeriggio, finiranno in ospedale molte altre persone variamente ferite.

La giornata di Pino Malacaria inizia presto, come sempre del resto. Verso le 7.30 esce dalla sua abitazione, al numero 7 di Pianicello, per recarsi al lavoro, lavoro faticoso il suo, fatto di impasti e murature. L'aria è più fresca del solito e Pino decide di prendersi mezza giornata di riposo. Così, dopo aver pranzato, si reca in un'abitazione privata per quei lavoretti che gli consentono di arrotondare la magra paga di un muratore. Verso le 17 rientra a casa, fa colazione e saluta la moglie con tre semplici parole "Vado al comizio".

Nella notte tra il 3 e il 4 febbraio una NSU Prinz 1000 si ferma davanti al salone di esposizione del palazzo della Provincia, che all'epoca ospita gli uffici della Regione, in Piazza Prefettura. Un uomo, con in mano un fagotto, scende dalla vettura, si guarda intorno con occhiate rapide e nervose, si avvicina ad una delle colonne dell'edificio, appoggia in terra il pacco e risale velocemente nell'auto che sfreccia lungo Corso Mazzini imboccando il senso vietato.
Un agente di polizia, che si trova nelle vicinanze, nota il movimento, cerca di avvicinarsi ma, dopo aver percorso qualche passo, è respinto indietro dalla detonazione. L'ordigno esplode e manda in frantumi le vetrate del palazzo e quelle dei fabbricati vicini, tra cui quelli delle Poste, del Credito Italiano e dell'Ina. La tragedia è sfiorata, il custode del palazzo provinciale e la sua famiglia ne escono miracolosamente illesi, da lì a poco si svuota il Teatro Comunale e gli spettatori ignari piombano in una situazione paradossale: una bomba... a Catanzaro!! L'aria diviene pesante, un misto di incredulità, indignazione e spavento percorre i volti rossi per il freddo di tutti coloro che accorrono in piazza: forze dell'ordine, curiosi, gente semplice e autorità pubbliche.

La mattina successiva tira vento, come accade spesso da queste parti, la giornata si preannuncia particolarmente fredda; Catanzaro si sveglia lentamente con i suoi rumori, le saracinesche si alzano, e chi non sapeva lo viene a sapere così, fuori da scuola, comprando il pane o, semplicemente, leggendo un ciclostilato che spunta sui muri della città.
Il volantino, sottoscritto da Dc, Pci, Psi, Pri, Psiup e Pli, è semplice e essenziale, scritto velocemente trasuda sdegno e chiama alla mobilitazione; le forze democratiche della città invitano i cittadini a partecipare ad un manifestazione antifascista che si terrà il pomeriggio stesso alle 17 in Piazza Grimaldi. Le ore passano e in città il brusio aumenta, la notizia dell'attentato è, ormai, sulla bocca di tutti, le sedi dei partiti fermentano, i telefoni delle autorità squillano in continuazione.

Verso le 17 Piazza Grimaldi inizia a riempirsi di persone: dirigenti di partito, militanti e simpatizzanti, rappresentanti delle istituzioni, gente comune accorsa chi per sdegno chi per curiosità.
Dal palco, montato per l'occasione, Franco Politano, all'epoca segretario della federazione provinciale comunista, annuncia che è stata negata l'autorizzazione per la manifestazione, la motivazione ufficiale è il mancato rispetto del termine dei tre giorni previsto per la richiesta. Si decide, così, unanimemente di rinviare la manifestazione a data da destinarsi e di tenere comunque in serata una assemblea pubblica nei saloni della Provincia.
La folla prende atto della solerzia burocratica ma il muovere dei passi verso corso Mazzini è interrotto dal rumore di un altro microfono e dal riecheggiare di altre parole. Dalla sede del Movimento Sociale Italiano, collocata ad una cinquantina di metri, iniziano ad arrivare frammenti di discorsi e slogans ritmati. C'è chi si allontana e chi si muove verso la parte bassa del corso, chi invita a non raccogliere le provocazioni e chi inveisce.
"Dalla sede del Movimento sociale italiano si incominciava a sentire un discorso. L'oratore ad alta voce attribuiva la colpa di quanto stava accadendo in Calabria, per la questione del capoluogo, al governo e alla democrazia cristiana, accusati di aver rinviato troppo a lungo la decisione sul problema più importante, cioè la scelta del capoluogo della regione. Dalle finestre della sede del MSI si sono affacciati allora alcuni giovani con cimetto in testa e visiera. Fra i missini ed alcuni passanti venivano scambiati dei gesti di scherno e degli insulti. Dalle finestre venivano subito lanciate pietre verso il basso e la folla si disperdeva. I missini poi chiudevano le finestre e, quanti si trovavano in strada, rilanciavano verso l'alto le pietre che avevano raccolto per la strada" (Il Corriere della Sera, 5 febbraio 1971).
Alcuni funzionari della Polizia irrompono nella sede del MSI. A questo punto le urla e il fragore della strada sono interrotti dalle esplosioni; il resto sono grida, sangue e gente che fugge a cui, poco dopo, si aggiunge il suono delle sirene delle ambulanze.

A terra resta Pino Malacaria e un numero consistente di feriti molti dei quali passanti; tra questi R.C., uscita dalla chiesa dell'Immacolata e diretta verso casa, dichiara: "Mentre dalla sede missina venivano lanciate in strada pietre da giovani che avevano il capo coperto da caschi, il prospiciente vicoletto nel quale sfocia il laghetto Vinci Duomo è stato rischiarato da una scia luminosa. Subito dopo ho notato nel vicoletto alcuni giovani, due per l'esattezza, che hanno lanciato qualcosa in direzione della folla che stazionava sotto la sede del MSI. Un attimo dopo ho avvertito due esplosioni e contemporaneamente sono caduta a terra ferita. Il lancio della bomba è avvenuto ad una distanza da me di circa sei metri". Anche S.M., passava di lì per caso, aveva appena terminato il suo turno di lavoro alle Poste e stava rincasando quando, inaspettatamente, si è ritrovato nel bel mezzo della sassaiola: "Ho cercato di riparami nel vicoletto ma sono stato colpito da un oggetto che è esploso dopo essere piombato dall'alto".

La città è sempre più attonita, gli abitanti sempre più increduli ma, ora, allo sdegno si sommano paura, sangue e domande: "chi è stato", "da dove arrivano le bombe"; "perché?". Qualcuno ha trovato subito una risposta, qualcun altro si è preoccupato di smarcarsi da ogni responsabilità, altri ancora si sono cimentati nell'infangare il nome di Pino Malacaria: la città ha atteso per 35 anni una risposta che non è mai arrivata e, probabilmente, non arriverà mai.

All'attentato seguono attività giudiziarie (indagini, arresti, perquisizioni), politiche (manifestazioni e scontri alla Camera dei Deputati) e un altro ordigno.
La stessa sera del 4 febbraio alla Camera si registrano incidenti violentissimi tra comunisti e missini, il vicepresidente abbandona l'aula, sospendendo la seduta ma non placando gli scontri. Il Presidente Pertini convoca i capogruppo, entra in aula riapre la seduta e dichiara "Deploro i gravi incidenti avvenuti poco fa e credo di interpretare il pensiero di tutti condannando la brutale violenza consumata oggi a Catanzaro. Ogni uomo libero e democratico deve protestare; questi atti di violenza minacciano la nostra democrazia conquistata lottando contro il fascismo e il nazismo".
A seguire tutti i deputati in piedi (fatta eccezione per i missini sedutisi dopo le prime parole del Presidente) applaudono a lungo.
Il pomeriggio del 5 febbraio viene indetta una manifestazione unitaria in difesa della Regione e delle libertà democratiche. La piazza della Basilica dell'Immacolata accoglie circa tremila persone e parole come "libertà, democrazia e resistenza".
Il giorno successivo una bomba carta viene depositata nei pressi dell'abitazione di Malacaria; su segnalazione di un netturbino la polizia interviene e l'ordigno viene rimosso.

Non sappiamo chi ha lanciato le bombe quel 4 febbraio né tantomeno chi è il mandante di tutto ciò e, forse, come già detto, non lo sapremo mai. La storia del nostro paese è fatta di stragi impunite e morti senza giustizia ma, in questo caso, non c'è solo questo.
La storia di Malacaria lascia anche altre amarezze: il nome di una persona spesso tirato in ballo a sproposito, indifeso, infangato troppo facilmente e una città che, per la maggior parte, non sa, non ricorda o non vuole ricordare.
Il territorio di Catanzaro è devastato, saccheggiato nel corso del tempo, edificato fino allo stremo; la memoria di questa città è avvolta da una nebbia di silenzi, coperture e verità costruite.
Per entrambi non ci sono ricette immediate ma, a volte, per iniziare a far diradare la nebbia basta poco, basterebbe iniziare a ricordare chi era Giuseppe Malacaria.

3. Lo scenario
La vicenda della morte di Giuseppe Malacaria si iscrive in un contesto storico molto convulso per l'Italia. Nel 1970 l'equilibrio mondiale "bipolare" disceso dagli accordi di Yalta raggiunti al termine della seconda guerra mondiale (sono passati "solo" 25 anni) determina una contrapposizione netta tra il blocco Nato e quello del Patto di Varsavia. I paesi "non allineati" conoscono una stagione di protagonismo politico, ma non incidono nel quadro generale, che comunque gode di una sua intrinseca stabilità.
In Italia vige la conventio ad excludendum che costringe i comunisti (marchiati dal "fattore K") a rimanere fuori dal governo. Il 12 dicembre 1969 la strage presso la Banca dell'Agricoltura in piazza Fontana a Milano inaugura quella che venne definita la "strategia della tensione", portata avanti da elementi neofascisti, servizi segreti italiani ed esteri. Anche se la verità giudiziaria su quegli anni è per larga parte incompiuta le ricostruzioni storiche hanno evidenziato i fatti e le connessioni che ne stavano a monte. L'Italia era un paese a rischio nel campo dell'alleanza atlantica. I socialisti erano stati cooptati nell'area di governo, ma il Pci ("il più grande partito comunista dell'occidente"), ancora legato all'esperienza sovietica, iniziava a conoscere una fase elettorale espansiva, mentre nascevano le formazioni della sinistra "extraparlamentare". Ogni mezzo venne dunque considerato ammissibile per frenare i processi democratici in fase di dispiegamento.
Il 1970 arriva nel quadro di una forte fase di lotte studentesche e operaie, che aprono nuovi percorsi politici di emancipazione e di progresso, rivendicando tanto aumenti salariali quanto nuovi diritti civili. E' un anno caratterizzato da una grave crisi nazionale, con una forte mobilitazione sindacale, che giunge a provocare le dimissioni del governo Rumuor alla vigilia di uno sciopero generale. Gli succederà un governo guidato da Emilio Colombo. La "questione meridionale" era ben lontana dall'essere risolta, anzi rimaneva un elemento di divisione verticale del Paese. E nel Mezzogiorno le condizioni della Calabria spiccano per l'arretratezza economica, culturale, sociale in senso lato.
In questo scenario internazionale e nazionale, il 14 luglio 1970 esplode la rivolta di Reggio Calabria. I "moti" traggono alimento dalla vicenda della scelta di Catanzaro come capoluogo di Regione (solamente nel 1970 vengono infatti istituite le regioni a statuto ordinario).
Si tratta di un episodio storico di assoluta rilevanza, in cui tutta una città si ribellò con violenza. Uno snodo storico che segnò profondamente la storia della Calabria e di Catanzaro, che, a quel punto, assume il ruolo di "centro direzionale" della regione, che ad oggi pare essere ancora incapace di esercitare nei fatti.
La rivolta di Reggio durò sostanzialmente dal luglio 1970 al febbraio 1971 (il 4 febbraio muore Malacaria, il 12 Emilio Colombo annuncia in Parlamento il suo "pacchetto", il 15 il consiglio regionale vota definitivamente Catanzaro capoluogo, il 18 a Reggio vengono rimosse le barricate del rione S. Caterina ed il 23 viene "espugnato" Sbarre, il rione in cui più forte fu la resistenza dei reggini). In quei mesi nella città dello Stretto si ebbero: decine di giorni di sciopero generale e di paralisi di tutte le attività (dagli esercizi commerciali agli uffici amministrativi, dalle scuole ai servizi di trasporto); decine di attentati dinamitardi; centinaia di blocchi stradali e ferroviari; ripetuti assalti alle sedi della prefettura, della questura e dei partiti politici; migliaia di persone denunciate o arrestate; e, oltre a ciò, cinque vittime (diventeranno sei nel settembre del 1971) di scontri di piazza, tra dimostranti e forze dell'ordine. Il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat arrivò a minacciare le dimissioni nel caso in cui il governo avesse fatto uso dell'Esercito per sedare la rivolta.
Furono mesi in cui, mentre la maggior parte dei partiti non riesce a comprendere e guidare la rivolta in un alveo istituzionale, Ciccio Franco, un sindacalista della Cisnal (sindacato vicino al Msi, partito che pure all'inizio non aveva sostenuto la ribellione), appropriatosi del motto dannunziano "Boia chi molla", assume la leadership di un movimento popolare e spontaneo e dirige le clamorose proteste. Alle successive elezioni il Msi guidato da Franco ottiene nella città dello Stretto risultati clamorosi, vette mai raggiunte altrove.
La sollevazione di Reggio travolse tutte le possibilità di mediazione. La questione sul piano istituzionale e di governo venne affrontata con il compromesso che divise gli organi regionali con la giunta a Catanzaro ed il consiglio a Reggio e la promessa dei grandi insediamenti produttivi (il "pacchetto Colombo": Liquichimica di Saline e V Centro siderurgico di Gioia Tauro), che si rivelarono un fallimento. Cosenza, che vedeva più avanti, ebbe l'università e poi la televisione. Sono i giorni in cui si definisce anche la scelta di Lamezia Terme per insediare l'aeroporto internazionale. D'altronde la leadership politica in quegli anni in Calabria era esercitata dal segretario del Psi Giacomo Mancini, dal ministro democristiano della pubblica istruzione Riccardo Misasi (entrambi cosentini) e dal sottosegretario agli Interni e, soprattutto, segretario amministrativo della Dc Ernesto Pucci (catanzarese).
L'episodio della tragica morte di Malacaria si iscrive poi nella triste teoria di un quindicennio della storia italiana segnato da scontri di piazza e assassini politici, mentre anche a Catanzaro si verificavano le violenze squadriste e azioni di "antifascismo militante", che durarono per anni. Nel 1974 la manifestazione di commemorazione delle morte di Malacaria sarà il pretesto per i più duri scontri che si verificarono in città tra dimostranti e polizia.
E' questo, a grandissime linee, lo scenario ed il clima nel quale il 4 febbraio 1971 scoppiano sul corso di Catanzaro le bombe che uccisero il giovane operaio socialista e ferirono altre 14 persone.
A volte la storia gioca anche con elementi marginali: la stagione calcistica 1970/71 vede l'U.S. Catanzaro conquistare la serie A ed anche lo sport diviene elemento di divisione e contrapposizione tra Catanzaro e Reggio (una partita tra le squadre della due città verrà giocata in campo neutro a Firenze!). La divisione è il presupposto della subalternità.
Da allora, con la formazione dell'ente regionale inizia la storia di questi nostri tempi. Peraltro negli anni '50 anche a Catanzaro vi erano stati dei tumulti per la rivendicazione del capoluogo, superati dal fatto che le regioni non vennero istituite per altri vent'anni Anche per questo dobbiamo saperci confrontare con la storia (e la verità) di quei giorni di 35 anni fa. Qualcuno, giustamente, osserva che Catanzaro non è un posto da cui "si passa": è un luogo al quale si deve andare. Per questo l'insediamento del capoluogo regionale (e quindi quei giorni convulsi del 1971) sono decisivi per la storia della città. Le conferiscono una funzione che, probabilmente, ne evita la marginalità.

4. L'inchiesta
Da trentacinque anni tappano le bocche del dolore. Neanche s'immaginano più le urla e le lacrime di Angela Muscimarro, moglie di Giuseppe Malacaria. La sera del 4 febbraio nei corridoi del vecchio ospedale civile gli strazi della donna imploravano Nino Gimigliano: trovati cu l'ammazzau. Un compito che non hanno saputo svolgere i giudici, figurarsi l'avvocato parte civile che insieme a Bruno Dominianni assunse la difesa.
Dal 3 aprile 1974, più niente. Chiuso il processo con nessun omicida al gabbio, la famiglia di Malacaria si è auto esiliata in un contegno fuori da ogni comune reazione. Un silenzio lontano da ogni naturale emotività. Finanche quando nuove palate di fango sono piovute in faccia alla memoria dell'unico morto per terrorismo a Catanzaro. Ssst, e nessuno ha fiatato. L'ultima badilata di menzogne, in ordine di tempo, a ridosso dell'anniversario 2006 dell'assassinio. Il giornalista Venturino Coppoletti, ex presidente regionale della Federazione nazionale della stampa, ha scritto in una lettera ospitata da tutti i quotidiani locali: "A distanza di 35 anni si tenta ancora di speculare sulla morte di Giuseppe Malacaria [...] attribuendola ad un attentato 'fascista'? E' quanto ho avuto occasione di leggere, sia pure in ritardo, nell'intervento di Nicola Ventura, capogruppo Ds al comune di Catanzaro [...] il quale parla di una "pagina nera per Catanzaro"; nera si (sic) ma per avere voluto a tutti i costi negare la verità dei fatti. E la verità dei fatti, non delle congetture, quella sancita dalla perizia balistica, è che non vi fu alcun lancio dal balcone della Federazione del Msi, né da altre parti della piazzetta, perché l'ordigno venne ad esplodere all'interno della tasca sinistra del Malacaria spappolandogli l'interno della mano e l'osso della coscia".
Coppoletti cerca di attribuire attendibilità alle sue argomentazioni riferendo che "chi scrive, quel giorno, si trovava all'interno della Federazione del Msi, intento a trasmettere, in diretta telefonica al Secolo d'Italia, la cronaca degli avvenimenti in corso". Coppoletti non è l'oggetto della nostra disamina: è qui adottato a simbolo della sbrigativa e diffusa abitudine di licenziare sul terreno del minimalismo il caso Malacaria; Coppoletti è anche l'effigie della preoccupazione, tutta di destra, di evitare l'accostamento "sede dell'Msi - morte di Malacaria".
Ed effettivamente due sono i fatti accertati dal processo. Il primo ha certificato che l'esplosivo che uccise Giuseppe Malacaria, per la tipologia e la geografia delle ferite rinvenute sul cadavere, non poteva essere contenuto nelle vesti dell'operaio. In altre parole la bomba poteva stare anche in mano all'uomo, ma certamente non nascosta nel vestiario. Il secondo ha affermato che le bombe non potevano essere state lanciate dalla sede dell'Msi.
Quattro le bombe a mano ritrovate sul posto. Una non esplose e fu ritrovata in via Ippolito, il vicolo che conduce alla chiesa del duomo, vale a dire dall'altra parte dell'edificio che attualmente ospita la Camera di Commercio sotto le cui finestre esaurì la sua corsa l'agonizzante Malacaria. Il muratore, colpito, trovò comunque la forza di trascinarsi da larghetto Vinci (il luogo dove ora è sito il noto locale Z-one) a corso Mazzini. Pochi metri zoppicante. Poi si diresse verso la basilica dell'Immacolata. Cinque passi. E cadde. Malacaria non fu assalito dalla sindrome del kamikaze palestinese quel giorno: come avrebbe potuto trasportare nelle tasche dei pantaloni le Oto Balilla, le bombe carta e il cilindro di latta inesploso senza essere notato in una Catanzaro già formicolante di polizia e per di più in un clima gasato dalle tensioni per il capoluogo? Oltre alle bombe a mano, di fatto, il 4 febbraio 1971 fecero il botto altri oggetti. Tra questi le carte che anticiparono il boato del tragico evento.
Due giorni dopo, peraltro, un rudimentale ordigno fu rinvenuto a pochi metri dall'abitazione di Malacaria. Un atto intimidatorio rivolto ai congiunti? Un messaggio. I due medici che eseguirono gli esami istologici sul corpo, Corrado Docimo e Antonio Fornari, stabilirono che gli ordigni, per via delle dinamiche di lacerazione dei panni, non potevano essere trasportati dall'uomo.
Fornari non era l'ultimo arrivato. Già docente di medicina legale all'Università di Messina, fu poi presidente dell'Istituto di medicina legale del Policlinico San Matteo di Pavia. Era la massima autorità del campo in Italia. Il suo curriculum è costellato da una sfilza di autopsie illustri: dall'anarchico Giuseppe Pinelli al potentissimo "salvatore della Lira" (parole di Giulio Andreotti) Michele Sindona, dall'editore Giangiacomo Feltrinelli al banchiere Roberto Calvi. Dove c'è una morte misteriosa in quegli anni in Italia c'è Fornari. E dove c'è Fornari, spesso, suicidi e affini assumono il colore del giallo omicidio. Il catanzarese Docimo, dal canto suo, fu il primo ad analizzare il cadavere, conducendo per circa tre ore l'esame necroscopico subito dopo il decesso di Malacaria. Docimo potè acquisire informazioni a cui gli altri due periti non poterono accedere: quelle del tempo reale. Non era dello stesso avviso di Fornari e Docimo il tenente colonnello Giuseppe Cavafelice, che fu precipitato da Roma in un'epoca in cui l'ufficio politico non perdeva occasione di mettere il naso in vicende come quelle. Cavafelice durante il processo fu convinto assertore della teoria delle "bombe tascabili". Il processo però diede ragione a Docimo e Fornari.
Trentacinque anni dopo come il giornalista Venturino Coppoletti ricostruisce una versione che finisce per storpiare anche i nomi dei protagonisti (i nostri sono attinti dalle cronache dell'epoca pubblicate da Gazzetta del Sud e Corriere della Sera): "Le perizie sulla morte furono due: quella medico - legale redatta dai professori Docimo di Catanzaro e Furnari di Pavia e quella della balistica redatta dal colonnello Cavasedici. La prima si era conclusa con l'affermazione che "è da escludere che l'esplosione sia avvenuta stando l'ordigno nella tasca sinistra anteriore dei pantaloni del Malacaria [...]". La seconda perizia, quella balistica, redatta dal Col. Cavasedici (sic), che si è conclusa con l'affermazione che la bomba è scoppiata mentre era nella tasca del Malacaria, è stata molto più esplicita e le sue conclusioni più aderenti alla realtà dei dati rilevati sul corpo del Malacaria. Infatti la mano del Malacaria risultava spappolata nella parte anteriore, così come pure l'osso della coscia".
Il teorema di Cavafelice in verità fu smontato nel corso del dibattimento e prevalse la tesi di Docimo e Fornari. Ma oggi non esiste fascicolo che immortali nero su bianco la ricostruzione dei giudici. Gli incartamenti di un processo esaurito con un nulla di fatto e durato soltanto tre anni in un Paese in cui un iter giudiziario penale si dilunga in media 14 anni sono andati perduti. Resiste solo l'annotazione di registro, che non asseconda i sospetti concentrati su quattro giovani di destra di Strongoli, che finirono alla sbarra, ma furono scagionati. Il fascicolo si è volatilizzato. La versione ufficiale in cancelleria sostiene che è stato smarrito insieme a molti altri atti degli anni '70 nell'ambito del trasferimento dell'archivio alla sede nuova del tribunale di Catanzaro. Plausibile che in cento metri di strada, tale è il segmento che separa la vecchia sede di piazza Matteotti al nuovo edificio che ospita il palazzo di giustizia, la città abbia perso una parte imponente di memoria?
La scomparsa del fascicolo Malacaria aggiunge mistero al mistero. Per fortuna resistono ancora le testimonianze di chi fu protagonista degli eventi giudiziari. Domenico Pudia, attuale procuratore generale presso la Corte d'Appello, in quel processo fu pubblico ministero. Le sue parole ricalcano quelle di Nino Gimigliano quando smentiscono Coppoletti e di conseguenza Cavafelice: il processo stabilì che Malacaria quelle bombe non poteva averle in tasca. Ma allora perché gli eredi di Giuseppe Malacaria non si sono sentiti in dovere di confutare le tesi di quanti ancora storpiano la ricostruzione storica? Perché i Malacaria non hanno intimato la rettifica ai giornali che hanno pubblicato una lettera tutta costruita intorno a un falso?
I Malacaria continuano a negarsi al confronto. E lo fanno con una fermezza che non conosce cedimenti. Da trentacinque anni sono come spariti dalla vita pubblica che pur sistematicamente tira fuori le cronache di quei giorni. Domenico Malacaria al telefono, quando ancora non arguisce che sta per essere invitato a una discussione che ha come oggetto l'omicidio di Giuseppe, risponde così: "Sì, sono Domenico. Il fratello della buonanima". Poi però realizza e ha fretta di riattaccare: "No, no... Io non so niente. Io vivo fuori. Non so niente, non sono di qua". Gli altri parenti fuggono ogni occasione di dibattito. E' come se nessuno avesse più voglia di riaprire una ferita che si è rimarginata senza che la giustizia cicatrizzasse. In altre circostanze le famiglie delle vittime protestano e si disperano se cala il sipario mediatico e giudiziario sulle loro tragiche vicende. Nel caso dei Malacaria sembra quasi che gli stessi congiunti abbiano in fretta, troppo in fretta, voltato pagina. Perché?
Qualcuno ha esercitato pressioni su di loro affinché non tornassero sull'argomento? E poi, ancora, è vero che Giuseppe Malacaria quel giorno si trovava per caso a passare da corso Mazzini? E' vero che era democristiano e non aveva nulla a che fare con la sinistra, come sostiene chi aveva avuto modo di conoscerlo, ovvero l'avvocato Nino Gimigliano ("Malacaria mi disse che votava Pucci")? La sua fine fu effettivamente strumentalizzata dal Partito socialista, con il confezionamento di una tessera di appartenenza postuma? E perché le indagini non si concentrarono su possibili attori catanzaresi? Alla sbarra finirono quattro innocenti di Strongoli. Si pensò di volta in volta a mandanti ed esecutori lametini e reggini; nessun catanzarese è finito nel novero dei sospetti. Eppure sabato 6 febbraio 1971, ovvero due giorni dopo la sera dell'omicidio, una bomba carta simile a quelle esplose in corso Mazzini fu rinvenuta nei pressi dell'abitazione della vittima e della residenza del ragioniere Michele Nocchi che, intervistato da Saro Ocera, sull'edizione del 7 febbraio di Gazzetta del Sud, dichiarò: "Sono assolutamente certo che l'ordigno rinvenuto in prossimità dell'abitazione di mia sorella, e quindi della mia, è uguale in tutti i particolari a quelli che sono stati fatti esplodere, prima delle bombe a mano, nel larghetto Vinci e nel vicoletto Duomo. Io quella sera ero sul posto. Stavo rincasando in compagnia di mio figlio proprio mentre stava per avere inizio la sassaiola in corso Mazzini. Ad un certo punto ho visto una scia luminosa solcare il vicoletto Duomo e cadere davanti ai miei piedi. Ricordo perfettamente ogni particolare. Si trattava di una bomba-carta perfettamente identica a quella rinvenuta poco fa".
Possibile che quell'ennesima provocazione, con il sangue ancora caldo di Malacaria, con il questore che aveva chiesto e ottenuto più uomini da dispiegare sul territorio, sia stata posta in essere da gente venuta da fuori e libera di circolare nel capoluogo? Che ruolo giocarono i servizi segreti deviati nella vicenda Malacaria?
I fascisti catanzaresi, in seguito alla morte del principe nero Junio Valerio Borghese, avvenuta il 26 agosto 1974, ricevettero dalla Decima Mas l'onore di portare in spalla la bara dell'ideatore dell'operazione Tora Tora. Quest'ultimo è il nome in codice del tentativo di colpo di Stato che due mesi prima della morte di Malacaria, e precisamente nella notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970, fu messo a punto fino alla penetrazione nell'armeria del Viminale di diversi esponenti di Avanguardia Nazionale, poi ritiratisi pare per diretto intervento del segretario dell'Msi Giorgio Almirante. La presenza e il ruolo attivo dei catanzaresi alle esequie di Junio Valerio Borghese è la testimonianza della buona reputazione di cui godevano i nostalgici nostrani del Ventennio presso un personaggio che, oltre a essere stato comandante della Decima Flottiglia Mas, sarebbe stato anche reclutato dalla Cia per operazioni coperte come quella di Portella della Ginestra. Borghese fu presidente dell'Msi e fondatore del Fronte Nazionale che funzionò da coordinamento di formazioni extraparlamentari come Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale in attesa dei "colonnelli". Ma soprattutto in quegli anni Fronte Nazionale lanciò con ferocia inaudita la sua politica in Calabria, alimentando e strumentalizzando i moti di Reggio Calabria. Fatti che sfociarono nel deragliamento della Freccia del Sud. Quell'atto barbaro datato 22 luglio 1970 costò 6 morti e 54 feriti.
Successive indagini hanno comprovato che Fronte Nazionale allacciò rapporti con la 'ndrangheta, cercando di coinvolgere malavitosi calabresi nei propri piani golpisti. A quei progetti, che avrebbero avuto anche il via libera della Cia, parteciparono piduisti (Licio Gelli in persona avrebbe dovuto occuparsi del rapimento del presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat), uomini delle forze armate e dei servizi segreti deviati italiani. E' del tutto privo di senso ipotizzare che l'assassino (o gli assassini) di Giuseppe Malacaria, in un panorama del genere, potesse orbitare intorno alle posizioni di Fronte Nazionale che in Calabria aveva amici e interessi? Improbabile che la mano che lanciò quella maledetta bomba recitasse un ruolo attivo nei moti di Reggio?
Una mano che non doveva lasciare impronte.
Per completezza, ricordiamo che Tora Tora rimase senza colpevoli. Prima si tentò di far passare il tentato golpe, venuto a galla soltanto tre mesi dopo il giorno dell'Immacolata del 1970, come cospirazione di un paio di isolati. Poi, caduto il delitto di insurrezione armata contro lo Stato, fu assolta la maggior parte degli imputati e le poche condanne (per cospirazione politica e associazione a delinquere) furono leggere. Finché la Corte d'Assise d'Appello nel novembre 1984 ripulì definitivamente tutti da ogni accusa e il 24 marzo 1986 la Cassazione confermò definitivamente l'assoluzione generale.
Nessun colpevole per Tora Tora. Nessun colpevole per Malacaria.
Troppe le zone d'ombra di un omicidio rimasto senza perfino "senza vittime" che cerchino giustizia La morte del muratore Giuseppe Malacaria rimane una pagina oscura. Catanzaro ha chiuso ancora una volta gli occhi e ha tirato avanti.


Note: