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Strage di via dei Georgofili. Spatuzza: "Firenze, perdono". E cita Dell'Utri e il premier

«Innanzitutto un buongiorno, e che sia un buongiorno per tutti. Mi chiamo Gaspare Spatuzza e sì, intendo rispondere alle vostre domande». Il collaboratore di giustizia comincia così la sua deposizione: è il testimone chiave per la procura di Firenze sulle stragi di mafia del 1993, in particolare sulla strage dei Georgofili, dove è chiamato come testimone al processo che vede imputato il boss Francesco Tagliavia, accusato di essere il «coautore» della strage che nel 1993 distrusse a Firenze l'Accademia dei Georgofili, accanto al Museo degli Uffizi. L'udienza comincia alle 10 e termina alle 17.20, presiede il giudice Nicola Pisano. Ad assistere c'è anche una scuola: la classe V B del Marco Polo e l'aula è piena di giornalisti, parti civili e avvocati. Insieme ai pm Giuseppe Nicolosi e Alessandro Crini, c'è il procuratore capo Giuseppe Quattrocchi. Il contro esame della difesa di Tagliavia, appena avviato, proseguirà nella prossima udienza, fissata per il 9 febbraio.

LA RICHIESTA DI PERDONO - Spatuzza esordisce con una richiesta di perdono alla città di Firenze. «Nel maggio 1993, sono arrivato in questa città da terrorista, il nostro obiettivo era colpirla nel cuore e ci siamo riusciti. Oggi dopo 18 anni vengo qui come uomo pentito, voglio dirlo a questa città alla quale intendo chiedere perdono. Il mio perdono può essere non accettato e strumentalizzato, ma sento il dovere di farlo». Giovanna Maggiani Chelli, la portavoce dell'associazione delle vittime della strage dei Georgofili replica: «Il perdono mai. Impossibile, non ci riusciremmo, ma noi siamo con Spatuzza, ci auguriamo il più presto possibile che diventi collaboratore a tutti gli effetti, crediamo in lui perchè siamo coscienti che senza i collaboratori di giustizia non si arriverebbe da nessuna parte, ma quanto al perdono si rassegni, il perdono sarà Dio a concederlo».

DA MAFIOSO A PENTITO - C'è un momento preciso in cui Spatuzza comincia quello che definisce "il mio cammino": «Quando mi viene notificato il primo ergastolo per don Puglisi che prevede anche due anni di isolamento diurno. Scrivo al direttore e chiedo di applicare questa misura il più presto possibile. Sono stato spostato in una sezione più dura e lì comincia un bellissimo cammino che mi ha portato a queste conclusioni oggi. Vengo trasferito in un altro carcere per un colloquio investigativo con Vigna. Arrivo in questo istituto e dopo pochi giorni vengo convocato da Vigna in carcere. Quando dico a Graviano che avevo parlato con Vigna e gli spiegai che Vigna era molto disponibile, lui rispose: "Dobbiamo fare sapere a Giuseppe che se non arriva niente da dove deve arrivare, è bene che anche noi iniziamo a parlare con i magistrati"». «Nel gennaio 2005 arrivo ad Ascoli Piceno. Incontro padre Pietro Cappoccia. Cercavo della verità in me stesso, lui non ha interferito nella scelta di collaborare, i preti hanno altre cose da fare. Il 17 marzo 2008 faccio colloquio con Grasso e gli manifesto intenzioni di collaborare. Avevo tanta paura di collaborare, è stato l'unico di cui mi sono fidato. Sono stato trasferito e iniziamo i colloqui. Timori tanti, sapevo di entrare in conflitto con la magistratura, c'erano processi chiusi da 18 anni, con i servizi segreti e con i politici. Trovarsi di fronte a tutto questo non è stato facile. Mi sono reso conto che era il passo da fare definitivamente. Mi sono inginocchiato davanti allo Stato e ho chiesto perdono e sono qui oggi a dimostrarlo».

LA COLLABORAZIONE NEGATA - «E le dichiarazioni in ritardo», chiede il pm Crini? «Ho sbagliato giuridicamente, ed è giusto per quello che sia punito dallo Stato negandomi la collaborazione. Ho omissato, non negato. Purtroppo ne sto pagando le conseguenze. Lo Stato che conosco io la protezione non me l'ha fatta mancare. Io non sono qui per il programma, da tre anni conduco una vita peggio del 41 bis. Quando ho deciso di collaborare non ho chiesto niente in cambio». L'avvocato Danilo Ammannato chiede se ha qualcosa da dire alle vittime di via Georgofili: «I familiari mi hanno dato il loro sostegno, mi hanno scritto una lettera fondamentale per me, spero di incontrarli. Ho risposto con una lettera scritta con tutto il cuore. C'è una ferita nel mio cuore e ho chiesto perdono. Lo so che spetta a Dio il perdono, ma io ho distrutto la mia vita per un rinnegato perdono».

LA CARRIERA CRIMINALE - Spatuzza racconta la sua storia criminale: «Con la famiglia Graviano entro in contatto nella fine degli anni Settanta, praticamente ci sono cresciuto dentro. Ero stato colpito in famiglia: era morto mio fratello, ucciso dalla cosiddetta lupara bianca. Io chiesi ai Graviano di ritrovare le ossa di mio fratello, siamo negli anni '82-83: il mandante dell'omicidio sarebbe stato Salvatore Contorno. Entro così nella famiglia. La famiglia Graviano era rispettatissima nel quartiere Brancaccio di Palermo. Il mio ruolo era osservare tutte le persone che erano riconducibili agli scappati, ai perdenti, quelli riconducibili a Stefano Bontate. Io facevo gli omicidi per conto dei Graviano: facevo le "battute": ovvero quando c'è una persona che si deve uccidere, si devono controllare gli appostamenti, questa fase di controllo è la battuta». «Fino al febbraio '94 conducevo una vita casa, chiesa e lavoro, ero sconosciuto alle forze dell'ordine. Poi a febbraio '94 è stata emessa una custodia cautelare in carcere del processo Golden Market: esce fuori la mia attività sommersa. A fare il mio nome è Giovanni Drago. Comincio così a condurre una vita da latitante anche se non ero latitante. Dopo l'arresto dei fratelli Graviano, il 27 gennaio del 1994, e l'arresto di Nino Mangano avvenuto nel giugno del 1995, io subentro come responsabile del mandamento, vengo "combinato". Sono sponsorizzato dalla famiglia Graviano e dalla famiglia Tagliavia: mi consideravano l'unico a poter gestire la situazione: divento capo mandamento di Brancaccio». Spatuzza poi, entra nel vivo della stagione stragista e spiega che gli attentati sono stati pianificati tutti da Giuseppe Graviano.

L'ATTENTATO A COSTANZO - Parla dell'attentato a Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993. «Io so solo che dovevano muoversi su Roma, ma non so chi dovevano colpire, io non chiedevo, loro non mi spiegavano. Il giorno dopo l'attentato mi sono incontrato a Palermo con Cosimo Lo Nigro e Salvatore Giuliano, non erano contenti di com'era andata».

L'ATTENTATO DI FIRENZE - «Com'è che nasce l'attentato di Firenze?» chiede il pm Nicolosi. «Barranca e Lo Nigro dicono a Tagliavia di fare un altro bingo (ovvero un altro attentato), ma non ci vogliono Fifetto Cannella che secondo loro, aveva rovinato l'attentato a Costanzo. Lo Nigro mi contatta e mi dice che dobbiamo incontrare Graviano e Tagliavia all'hotel Zagarella: qui ci sono Graviano, Tagliavia, Barranca, Matteo Messina Denaro e Giuliano. Graviano mi dice che dobbiamo fare un attentato, sul tavolo ci sono delle fotografie di monumenti di Firenze». I capi sono Graviano, Tagliavia e Matteo Messina Denaro. «Ma la decisione di fare l'attentato a Firenze l'avete presa lì o era già stato deciso?» chiede il pm. «I sopralluoghi erano stati fatti anche da Giuseppe Graviano. Tra gli obiettivi c'era un altro monumento importante di Firenze. Lì non si discusse della fase logistica ma si è deliberato l'attentato. Poi inizia la fase preparatoria: si preleva l'esplosivo, si macina. Le bombe vengono affidate a Pietro Carra e caricate su un camion. Vengono portati dei soldi, 5 o 10 milioni a testa per coprire le spese della trasferta da Giorgio Pizzo, il cassiere della famiglia Brancaccio. Noi invece partiamo in treno, arriviamo alla stazione di Firenze, qui abbiamo incontrato un ragazzo, Vincenzo Ferro, il padre era capofamiglia di Castellamare che ci ha prelevato con una Fiat 1. Siamo arrivati in una casa un po' isolata, intorno a Firenze. Ad accoglierci c'era una persona che parlava siciliano, lo zio del Ferro, una donna e due figli. Lo Nigro va a fare dei sopralluoghi perché la strada non è accessibile: abbiamo pensato di prendere un furgone 850 blu che abbiamo mascherato come furgone dei carabinieri, con tutte le scritte che avevamo dietro. Nel pomeriggio arriva una telefonata di Pietro Carra che comunica di essere arrivato a Firenze con a bordo l'esplosivo. Io e Giuliano Francesco siamo usciti a rubare il Fiorino, abbiamo smontato il montapacchi, siamo andati a prelevare l'esplosivo dal Carra e lo abbiamo portato nel garage della casa del Ferro e poi lo abbiamo caricato nel Fiorino. Poi facciamo l'armatura: ovvero mettiamo l'esplosivo dentro le forme di parmigiano: usiamo due bombe più un altro tipo di esplosivo "di gelatina": dentro c'era una doppia detonazione. Fatto questo, Lo Nigro si mette alla guida del Fiorino, Giuliano guida la Fiat 1. Io sono rimasto a casa, guardavo la partita quando è uscita la notizia di un'esplosione su Firenze. Lo Nigro torna e dice: "Non abbiamo raggiunto l'obiettivo, ma abbiamo comunque fatto centro". Noi siamo partiti la mattina dopo verso Palermo».

LE STRAGI VANNO AVANTI - Francesco Tagliavia, dopo l'attentato di Firenze, manda a Giuseppe Graviano di fermare le stragi: «Prima di questi fatti - dice Spatuzza - io e Lo Nigro siamo andati al tribunale di Palermo. Lì abbiamo incontrato Francesco Tagliavia (lui era in carcere, aveva un'udienza) che ci voleva vedere dopo gli attentati, Mi manda un bacio e lo fa con il gesto del martello, il che significa "manda un bacio a Giuseppe Graviano". Lo Nigro mi comunica che bisognava "bloccare il bingo, bloccare gli attentati". L'incontro avviene prima degli attentati di Roma e Milano. Ma le cose andarono diversamente: la stagione stragista andò avanti».

ATTENTATI A ROMA E MILANO - Spatuzza ricostruisce gli attentati di Roma e Milano, avvenuti il 27-28 luglio del 1993: «Siamo partiti per fare un sopralluogo a Roma e Milano, sul Tevere ho visto la Casa di Dante e mi sembrava un monumento rilevante. Poi abbiamo deciso di colpire San Giovanni in Laterano e la chiesa a San Giorgio a Belardo. Gli obiettivi li abbiamo scelti noi. Poi siamo andati a Roma e Milano e lì abbiamo scaricato l'esplosivo. A Roma: io mi metto alla guida della prima autobomba, Lo Nigro alla guida della seconda autobomba. Arriviamo nel piazzale della chiesa a San Giorgio a Belardo: Lo Nigro accende la prima miccia e andiamo via con la seconda autobomba, arriviamo in San Giovanni in Laterano e azioniamo la seconda miccia. Saliamo sulla macchina di copertura e ce ne andiamo. Poi torniamo a Palermo».

LA CRISI DI SPATUZZA - Cosa accade dopo gli attentati di Roma e Milano? «Veniamo a sapere dove abitava il pentito Totuccio Contorno. Io ho vissuto tutta la mia vita per cercare di sapere dove stava, era la mia ossessione. Facciamo una riunione: Bagarella, Graviano e Matteo Messina Denaro e io comunico che so dove sta Contorno: mi aspettavo una reazione più entusiasta. Lui ne fu contento ma non felicissimo. Mi dice che dobbiamo portare avanti altre cose, che non abbiamo tempo da perdere con Totuccio Contorno, che ci sono altre priorità. Forse lì scatta la molla del mio rifiuto, del tradimento subito: io ho dato tutto me stesso per Cosa Nostra per raggiungere Contorno che aveva ucciso mio fratello. Ma se io avessi perdonato Contorno, non avrei mai rovinato la mia vita. E lì è venuta a mancare la mia presenza in Cosa Nostra, perché ho capito che l'obiettivo non è Contorno. Avere il cuore è una debolezza per Cosa Nostra».

IL FALLITO ATTENTATO ALL'OLIMPICO - Avviene poi un secondo incontro in una località balneare, Campo Felice Roccella, alla fine del '93. «Lì c'è Antonino Mangano, ci porta lui al luogo dell'incontro, al residence Euromare: restiamo io, Lo Nigro e Giuseppe Graviano. Quest'ultimo ci comunica che dovevamo fare un attentato ai carabinieri, che deve avvenire a Roma. Io dico che in questa storia ci sono troppi morti che non ci appartengono, Graviano nota la mia debolezza, mi disse che "ci si deve portare dietro un po' di morti, così chi si deve muovere si dia una mossa". Poi ci chiede se capivamo di politica, noi diciamo di no, dice che lui per questa cosa è preparato. Che c'è una situazione - continua Spatuzza - che, secondo Giuseppe Graviano, se fosse andata a buon fine ne avremmo tratto tutti dei benefici, a partire dai carcerati». Accadono due interferenze, il fallito attentato ha delle anomalie: Graviano dice che deve dare lui l'input definitivo prima di agire, che ci deve essere lui sul luogo. E che dobbiamo potenziare l'esplosivo. Fino ad adesso neanche i talebani hanno fatto qualcosa del genere: dentro l'esplosivo abbiamo messo il ferro, tondini di ferro, che potenziano l'esplosivo. Nel gruppo siamo io, Lo Nigro, Giuliano Francesco, Benigno Salvatore più Salvatore Grigoli e Luigi Giacalone.

«CI SIAMO MESSI IL PAESE NELLE MANI» - «Prima dell'attentato incontro Graviano in un bar in via Veneto: lo conosco da bambino a Giuseppe, qualunque gesto fa so riconoscere le sue espressioni: era felice, gioioso. Mi invita nel bar e mi comunica che avevamo chiuso tutto e avevamo ottenuto tutto quello che cercavamo e questo grazie alla serietà delle persone che non erano come quei quattro socialisti che ci avevano venduto. Mi fa il nome delle persone: mi menziona Berlusconi, gli dissi se era quello di Canale 5 e lui mi conferma e mi dice che nel mezzo c'è anche Dell'Utri, un compaesano. A quel punto che avevamo ottenuto tutto, io cerco di spingere la questione personale con Contorno. Graviano mi dice che l'attentato contro i carabinieri si deve fare perchè bisogna dare il colpo di grazia. "Berlusconi e Dell'Utri sono gli interlocutori, attraverso queste persone ci siamo messi il Paese nelle mani", mi dice. Così io capii che la trattativa e il patto era stato fatto con loro, ma poi aggiunge che dovevamo colpire ancora. Ma Cosa Nostra l'ha tradito questo patto, perchè ha voluto colpire ancora. Ma non so cosa ha ottenuto la mafia in cambio».

«PUNTIAMO MOLTO SU FORZA ITALIA» - In un incontro con altri mafiosi, Pietro Romeo e Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza racconta di averli dovuto tranquillizzare dicendo che i Graviano «avevano puntato molto su questo soggetto politico che si stava formando, Forza Italia e Berlusconi». Spatuzza l'ha detto ricordando che, in particolare Giuliano, alcuni esprimevano dubbi sull'opportunità delle stragi. «Così in una confidenza a tutti e due, Romeo e Giuliano, dissi a entrambi per tranquillizzarli che siamo in mani buone, siccome era nato questo soggetto politico che si chiama Forza Italia». L'incontro ci fu dopo l'arresto di Graviano e l'affermazione di Spatuzza «come reggente - ha spiegato il pentito - della famiglia di Brancaccio».

IL RIMORSO - «Parlando con Lo Nigro manifesto il mio malessere riguardo a questi attentati, ho usato l'espressione è una "tunnina", la mattanza dei tonni. Nel colloquio con Graviano il mio malessere era pensare alla bambina, che poi non era una ma erano due, la piccola Nadia e Caterina, l'ho saputo dopo». Cosa significa quando dice che questi morti non ci appartengono? chiede il pm Crini. «Disgraziatamente sono partito dalla genesi di questa storia stragista, ho partecipato alla strage di Capaci, a quella di via d'Amelio e posso dire che Capaci ci appartiene, abbiamo gioito quel giorno, via d'Amelio ci appartiene, non ci appartiene quello che è accaduto a Firenze, Roma, Milano, l'attentato ai carabinieri». E poi ha aggiunto: «Cosa Nostra non è così imbecille da andare in guerra senza avere le spalle coperte». Solo un pazzo può seguire Graviano, lui mi ha fatto carne da macello. Lo chiamavamo Madre natura». Che significa? chiede il pm, «Significa che lo adoravamo come un Dio, vedete voi se non eravamo pazzi».

Alessandra Bravi e Antonella Mollica