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Genova, le madri di "Reti Invisbili" chiedono verità, giustizia e pace
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 22 luglio 2006
22 luglio 2006

Toghe rosse. «Ne avessimo incontrata una!», esclama la mamma di uno degli arrestati dell'11 marzo. Antifascisti, "socialmente pericolosi" ha messo nero su bianco la procura che l'ha sbattuti quattro mesi e mezzo a S. Vittore per condannarne 18 a 4 anni. Senza una prova, dicono i difensori che si sono spulciati 200 ore di filmati. Condannati per concorso morale. Ossia per essere stati in piazza. Una sentenza così incostituzionale da far gongolare il vice di Moratti, mica per nulla se De Corato è un post-fascista.
Quote rosa. Se n'è fatto un gran parlare alla vigilia della lunghissima campagna elettorale. Haidi osserva la teoria di madri e sorelle di vittime della repressione sul palco del Porto Antico. Ecco, questo le sembra un bell'esempio di quote rosa. Tutte donne, se si esclude il moderatore "Baro" Barilli, mediattivista. E tutte a ragionare, ricordare, raccontare, indignarsi. Accompagnata da Carlo, Haidi sta per entrare in Senato al posto di Gigi Malabarba. Nella sua valigia ha messo da un pezzo la piattaforma delle "reti meno invisibili" per sgretolare il muro di silenzi, depistaggi e impunità che ha stravolto la vita di tutte quelle donne, e molte altre, che sono tornate cinque anni dopo a Genova. Una dopo l'altra forniranno il punto di vista dei parenti. Hanno dovuto imparare le parole del dolore e quelle che servono per uscire dalla solitudine. Ora vogliono che tutto questo bagaglio diventi politica, vita, giustizia.
Dietro storie anche molto diverse c'è il medesimo vissuto di denigrazioni subite, di manovre per archiviare, manco fossero polvere da sbattere sotto un tappeto. Questo spiega Patrizia Moretti, mamma di Federico Aldrovandi, ucciso in un controllo di polizia, forse ucciso "da" un controllo di polizia ma che si cercò di dipingere come un energumeno in preda ai fumi di sostanze. Anche di Fausto e Iaio si dissero cose turpi. E su Carlo Giuliani prova a rimestare in un inesistente torbido la stampa della famiglia Berlusconi. Quando ti arrestano un figlio, prima entri in crisi come madre. «Oddio, dove avrò sbagliato?». Poi conosci i suoi compagni e ti accorgi di essere stata distratta. «E ti torna la voglia di parlare a voce alta», dice Caterina che suo figlio se lo sono "bevuto" a Torino per una manifestazione antifascista non autorizzata. Una delle parole più ricorrenti tra queste madri è "solitudine". Da sola Lucia Bruno lavora da trent'anni a ricostruire la scena dell'agguato a suo fratello Piero, 18 anni, ammazzato mentre manifestava per l'Angola. «Ogni omicidio è una strage», dice alludendo alla scia di vite stravolte per sempre da gesti che resteranno impuniti. Ancora più sola deve essersi sentita la mamma di Rumesh, il cingalese sparato da un vigile antiwriters di Como. Spray contro pistola, che sproporzione. Rumesh è vivo ma sua madre ha deciso di non essere più sola e sta con le altri madri coraggio. Certo, però che mondo è quello in cui bisogna aspettare 5 anni per vedere, a mezzanotte, uno speciale sui misfatti del G8? E in cui i responsabili sono stati tutti promossi e i picchiatori neppure identificati e stanno al loro posto? Domande che non smette di porre Enrica Bartesaghi, mamma di Sara inghiottita da Bolzaneto. Che mondo è se Scajola, ministro del G8, "licenziato" per aver dato del rompicoglioni a Biagi già morto, adesso guida il Copaco per vigilare sui poco stimati 007 italici? E perché un pezzo da 90 della Quercia come Violante dimentica le promesse pronunciate due anni fa da un palco del Porto Antico su una vera inchiesta parlamentare? Patrizia Aldrovandi dice che è come se la guerra fosse già tra noi. Haidi dice che in fondo loro sono madri fortunate, più di quelle libanesi, palestinesi, irachene, afgane, di quelle i cui figli si imbarcano per fare naufragio nel mare o nei Cpt o nelle bidonville dei ricchi Nord. C'è che politici di sinistra e magistrati di sinistra e sindaci di sinistra, parlano i linguaggi della destra. Purtroppo anche su pace e guerra. Così anche lei sarà tra quelli che stamattina, in un teatro di questa città, proveranno a ricominciare da Genova anche sull'Afghanistan.
Dopo aver esplorato il ricordo dolente, ieri sera c'è stata anche una fiaccolata fino alla Diaz, l'ultima delle giornate genovesi prova a scrivere un'altra agenda con un appuntamento che intende rilanciare l'iniziativa autonoma del movimento contro la guerra afgana sulla scia di quello che hanno prodotto i social forum, da Bamako ad Atene. «Per evitare che il dibattito si polarizzi sugli "a priori" rispetto al governo», dice Vittorio Agnoletto, uno dei promotori di un appello nato sull'onda del malessere profondo di tante istanze no global che si sono sentite «schiacciate» dal dibattito istituzionale. Ai promotori, tutti personaggi senza appartenenza di partito, si sono aggiunti la Fiom, pezzi di aree cattoliche e varie reti stimolate già dall'appuntamento della scorsa settimana a Roma, quando centinaia di persone si sono riunite per rilanciare le ragioni del no alla guerra senza se e senza ma, e da altri recenti momenti di dibattito pubblici. L'iniziativa di oggi non vuole essere né in continuità né in contrapposizione con quell'appuntamento ma proverà a compilare un ordine del giorno ispirato al massimo dell'unità. E il movimento, spesso, è stato capace di farlo.