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L'odore di Genova come un vento che fischia
Bruno Morchio
Fonte: Liberazione, 16 luglio 2011
16 luglio 2011

In questo luglio assolato, passeggiando per i carruggi e le creuze che dal Borgo salgono verso le alture di Carbonara e Castelletto, ho avvertito l'odore della mia città come non mi capitava da tempo. Città mediterranea, Genova, e dunque permeata dalle fragranze di tutte le capitali che, dalle sponde dei quattro punti cardinali, si affacciano su questo mare con la certezza che un giorno o l'altro si riuscirà a scorgere la riva opposta: il refresco delle acque stagnanti del porto, il pesce e il piscio dei vicoli, l'aroma delle spezie e gli incensi che fumano sulle bancarelle dell'angiporto.
Ma quello di cui parlo è un altro odore, sprigionato dal lastricato sconnesso delle strade e dai muri grigi dei palazzi, quando la canicola li azzanna con la spietatezza del Solleone. Un'esalazione torrida che accorcia il respiro e riempie i polmoni d'un vago sapore di gomma, ferro e detersivo. In quell'amalgama pulsano effluvi diversi, cavati fuori con forza dal caldo e dall'arsura: ci senti industria, miseria, Africa, lavoro e sudore.
Mi sono detto che gli odori sono l'anima delle città; che non puoi dire di conoscere un posto fino a quando non impari a distinguerlo chiudendo gli occhi e inalando l'aria che lo pervade come una musica di sottofondo.
Gli odori non sono accidenti, sono il distillato della Storia.
Così ho ripensato a un altro luglio, quando benzina, sangue e lacrimogeni riempivano l'aria delle strade. Un evento che qualcuno avrebbe voluto archiviare frettolosamente, e invece si è impresso nel ricordo e non vuole più andarsene. Anche quegli odori, e il fumo, e il ronzio degli elicotteri sono rimasti incisi nella memoria dei genovesi.
Un ossimoro, questa città. Vecchia, conservatrice, chiusa, gretta, gelosa delle proprie bellezze al punto da tenerle nascoste e non farsene vanto, forse convinta che lusso e magnificenza suscitino invidia e finiscano col menare gramo. Superba d'una ricchezza finanziaria che non si vede, imboscata nelle banche dove la rendita ingrassa un pugno di famiglie a scapito della cronica penuria di opportunità di lavoro per i suoi figli.
E però anche capace di accogliere, dentro il proprio ombelico, nel cosiddetto centro storico (espressione che a me non piace, perchè di centri storici, da Voltri a Nervi, se ne contano almeno una dozzina) uomini, donne e bambini provenienti da tutto il mondo, che con i genovesi intrattengono un rapporto cordiale, mescolandosi nelle scuole, nei bar e nelle botteghe dove alla mancanza di confidenza e intimità supplisce almeno uno spontaneo, civile, scontato rispetto umano. Sempre più spesso ci scappa la risata, lo scambio di consigli, la bevuta insieme o lo scambio di favori tra vicini: "Mohammed, ho dimenticato di comperare il sale, me ne presta un pizzico?". Sì, perchè in quei vicoli, così pericolosi nell'immaginario d'un perbenismo lontano anni luce dalla realtà, stranieri e indigeni, neri e bianchi, bagasce e bancari, in barba agli appetiti degli immobiliaristi, vivono negli stessi palazzi, e questo è un miracolo che rende Genova una città (forse) unica al mondo. Del resto, i genovesi, fedeli al principio del manimun - tradotto: "non si sa mai" - sono così diffidenti, o se volete prudenti, fra di loro e verso i foresti del basso Piemonte e della Lunigiana, che gli arabi, i rumeni, gli albanesi e i sudamericani non potrebbero sentirsi troppo diversi da qualsiasi altro abitante della città vecchia.
Come tutto ciò sia potuto accadere è materia da storici e sociologi. Sarà stato il porto, che ha sempre reclamato affluenza di navi e genti per restituire alla città ricchezza e prosperità; saranno state le fabbriche, con la loro aristocrazia operaia nutrita di internazionalismo proletario. Oggi quelle industrie di stato non esistono più, e il porto sopravvive con l'affanno a cui è condannata l'umanità redenta dal mercato globale; ma, quando il sole di luglio sferza l'asfalto, dalle valli e dal ponente cittadino e sul lungomare di Sampierdarena si sprigiona ancora, densa e forte, quell'inconfondibile esalazione di gomma, ferro e detersivo. E i giovani che frequentano i licei e le scuole professionali, e perfino gli universitari che la notte invadono la città vecchia bevendo birra davanti ai locali, qualcosa si portano dentro di quell'odore e di quella Storia. Non hanno dimenticato i loro padri e le loro lotte. Come un soffione boracifero, un flusso di idee e principi che è stato inscritto nel loro dna, di tanto in tanto si solleva e si fa vento impetuoso che fischia e torna a voler cambiare il mondo.
E' accaduto, anche di recente, nelle manifestazioni dei ragazzi contro i tagli della ministra nominata con i buoni fedeltà; nell'indignazione gridata dalle donne (e non solo) in febbraio; è successo con il voto referendario, anch'esso frettolosamente accantonato nelle intenzioni dei modernisti al servizio del capitale, che non hanno compreso che quel cinquantasette-per-cento di italiani ha parlato un linguaggio nuovo che pesca ben più in profondità della contingenza - le vittorie elettorali berlusconiane del 2001 e 2008 - e mette in causa le sirene liberiste che dagli anni Ottanta ci rintronano le orecchie; è accaduto, infine, quando a Sestri Ponente tutte le botteghe hanno chiuso solidali con la lotta degli operai del cantiere. Cose da pazzi, che fanno venire in mente i tempi della Resistenza al nazifascismo, il 30 giugno del Sessanta o l'autunno caldo.
Ma qui è sempre così, ogni giorno e ogni mese dell'anno; qui la sirena xenofoba, razzista, liberista non ha mai suonato musica consona alle orecchie della gente. Qui le battaglie leghiste contro la creazione di una moschea non spostano voti nemmeno nel quartiere che dovrebbe ospitarla. E il capitalismo non ha vinto la sua guerra contro l'uomo, e la sinistra, con tutte le sue magagne, ha continuato a vincere.
Come è potuto accadere?
Io dico perchè quell'odore non abbiamo mai smesso di sentirlo. E continua a guidarci, resistente e insopprimibile, anche nelle notti più scure della Storia.