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L'Arma spara ad altezza d'uomo. Come a Genova dieci anni fa
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 9 marzo 2011 (con aggiornamenti 10 marzo 2011)
9 marzo 2011

Tre colpi. Tre, almeno, e Liberazione è in grado di mostrare la "pistola fumante". Era il 14 dicembre, giorno della sfiducia studentesca e metalmeccanica al governo Berlusconi, graziato, invece, dal voto dell'Aula. La scena è quella dello slargo all'incrocio tra Botteghe Oscure e Via degli Astalli. Per alcuni lunghi minuti i manifestanti si sono fronteggiati con il drappello di carabinieri che sbarravano la strada verso Palazzo Grazioli, la residenza del premier di fronte alla quale il Cavaliere ha preteso che non fermino più neppure gli autobus. Il fronteggiamento, ripreso da molte angolazioni, da professionisti e mediattivisti, sembra determinato dalle modalità stesse della gestione della piazza. Piazzare in quel modo i blindati sembra più una provocazione, una rozzezza tra le tante, che una reale necessità difensiva. Nei minuti presi in esame volano bottigliette, qualche stecca e anche sassi alle spalle dei due blindati dove piomba anche un bombone da stadio. Prima e dopo quel botto sono chiaramente distinguibili due detonazioni da arma da fuoco. Le foto che pubblichiamo in anteprima sono tratte da un video finora inedito. La fiammata che immortaliamo non lascerebbe dubbi sulla traiettoria del proiettile: ad altezza d'uomo. Lo sparo è partito da dietro gli scudi appostati sul cofano anteriore di uno dei due blindati che sbarravano il budello di strada alle spalle di Palazzo Venezia. Negli scatti si riconoscono alcuni carabinieri e, col casco più chiaro, azzurro anziché blu, il dirigente di ps che li comandava in abiti borghesi. Altro materiale, girato da prospettive diverse mostra alcuni militari con la pistola in mano e aderente alla coscia. Diversi testimoni ricordano di aver udito le esplosioni e di avere visto il personale in ordine pubblico chino, probabilmente a raccogliere bossoli. «Le immagini che oggi pubblica Liberazione - commenta Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione comunista - sono inequivocabili. Di nuovo come a Genova nel 2001 le forze dell'ordine sparano ad altezza d'uomo durante una manifestazione. A Roma non è successo l'irreparabile ma questo non rende meno grave la questione. Adesso capiamo meglio le parole di Maroni che nei giorni delle manifestazioni studentesche di dicembre sosteneva che ci poteva "scappare il morto" . Vogliamo sapere da lui che ordini sono stati dati alle forze dell'ordine per la gestione dell'ordine pubblico, se vi sono state inchieste interne riguardo all'uso di armi da fuoco e che risultati hanno dato. Ministro Maroni, vogliamo conoscere la verità, perché l'Italia è un paese democratico ed ha diritto di sapere».

Checchino Antonini

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Liberazione, 10.3.2011
Quelle immagini inquietanti reclamano tutta la verità

Nell'edizione di ieri abbiamo pubblicato le immagini inquietanti dei colpi di pistola esplosi, ad altezza d'uomo, dalle forze dell'ordine, nel corso della manifestazione del 14 dicembre scorso, a Roma, quando migliaia di studenti e lavoratori contestarono le politiche sociali del governo mentre in Parlamento era in corso il voto di fiducia sull'esecutivo. Le fotografie riprodotte, frutto di un'inchiesta ancora in corso di svolgimento da parte del nostro giornale, sono tratte da un filmato, opera di un fotoreporter che ha potuto ritrarre, per una significativa sequenza temporale, i fatti occorsi in quel tratto di strada e, segnatamente, ciò che accadeva intorno al blindato dietro al quale si trovavano i militari, carabinieri e un dirigente di Ps con casco azzurro ed abiti borghesi che coordinava le operazioni.
Come abbiamo già detto, sono svariate le testimonianze di quanti hanno udito gli spari ed altrettante le immagini che, da diverse angolazioni, ritraggono agenti con la pistola in mano. Ma, ancor più eloquente, è il sonoro unito al filmato, dove le detonazioni che accompagnano l'esplosione dei colpi sono, con ogni evidenza, di arma da fuoco.
Il fatto è di una gravità straordinaria, anche perché fa comprendere come solo per caso la vicenda non si sia volta in tragedia benché non vi fosse nulla che potesse minimamente giustificare una reazione - e di queste proporzioni - delle forze dell'ordine.
Ora è indispensabile che risponda il capo della polizia e che lo faccia, non di meno, il ministro degli interni. Ora è necessario che si apra un'inchiesta su questo episodio, che si accertino fatti e responsabilità.
Vogliamo sperare che questa primaria esigenza di verità e trasparenza sia condivisa, come dovrebbe essere, anche dalle forze dell'opposizione parlamentare.
Vogliamo sperare che la repressione del diritto di manifestare, divenuta da tempo moneta corrente, trovi finalmente una risposta democratica oggi fattasi alquanto tenue, se non addirittura latitante. Perché, come si sa, l'inerzia o la sottovalutazione possono portare lontano. E' già successo e le condizioni politiche del Paese non sono per nulla rassicuranti.
Dino Greco

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"Solo lacrimogeni". Maroni non sente gli spari
Liberazione, 10.3.2011
Francesco Ruggeri
Assordante il silenzio durato ore del Viminale dopo la pubblicazione, da parte di Liberazione, della pistoletta (o fucilata) di Via degli Astalli nel corso degli scontri avvenuti a Roma il 14 dicembre scorso. Solo in serata viene annunciato un comunicato con cui il ministero si attesta sulla versione che la fiammata sarebbe il prodotto del lancio di un lacrimogeno. Che però, nel video, è invisibile. E non è "dal basso verso l'alto" come suggerisce la velina diramata. "Sembra di essere in Libia", sbotta Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, il primo ad aver chiesto che Maroni riferisca sugli ordini sono dati quel giorno alle forze dell'ordine per la gestione dell'ordine pubblico, e se vi sono state inchieste interne riguardo all'uso di armi da fuoco. Perfino una tv attentissima come Rainews, ieri mattina, non ha mostrato la prima di Liberazione (speriamo sia stata una falla nella nostra distribuzione) nella rassegna stampa e le agenzie che hanno ripreso le dichiarazioni del leader Prc le hanno catalogate ai capitoli Scuola e Università. "Se, come non ho motivo di dubitare, fosse confermato quello che scrive Liberazione, si dovrà aprire una procedura non ordinaria ma straordinaria rispetto ai fatti del 14 dicembre e il Ministro dell'Interno Maroni non solo dovrebbe spiegare, ma dimettersi e con lui il Governo - dice in buona solitudine il consigliere regionale della Federazione della Sinistra Fabio Nobile - perchè non parleremmo soltanto di una repressione del movimento degli studenti che in quei giorni il Ministro ha tentato di criminalizzare ma si tratterebbe di una ripetizione aggravata di quanto accaduto a Genova nel 2001". Più cerchiobottista l'opposizione parlamentare: "Il ministro Maroni dia tutte le spiegazioni necessarie a chiarire l'ipotesi avanzata oggi dal quotidiano Liberazione - chiede Emanuele Fiano, responsabile della Sicurezza del Partito Democratico e membro del Copasir - ho assistito di persona a tutto lo svolgimento della manifestazione e degli incidenti ed ho apprezzato la scelta di un metodo di gestione della piazza da parte della questura teso ad evitare il più possibile i contatti tra le forze dell'ordine e la minoranza violenta presente nei cortei studenteschi. Eppure le foto pubblicate oggi, anche se ad una prima analisi sembrerebbero indicare il lancio di fumogeni, mostrano sicuramente un'arma ad altezza d'uomo e questo di per se pone interrogativi ai quali il ministro Maroni deve rispondere. Proprio perchè crediamo che in quella manifestazione siano state adoperate sagge cautele professionali da parte delle forze dell'ordine è bene che non rimangano dubbi: proprio per questo abbiamo presentato un'interrogazione urgente al ministro degli Interni e sollecitiamo un suo chiarimento".
Il dibattito politico (vedi gli altri articoli di questo paginone) è storicamente distratto o strabico sulle vicende di "malapolizia". Eccezione notevole, ma non è una novità, è il lavoro delle radio indipendenti, prezioso esempio di servizio pubblico, che hanno ripreso la notizia diffusa da questo giornale provando a rilanciare non solo la denuncia dei metodi della repressione ma la battaglia per rendere trasparente e consono ai dettami costituzionali il contegno delle polizie.
"Quando ho aperto Liberazione mi sono venuti i brividi", confida Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, ucciso dal proiettile di un carabiniere durante gli scontri innescati dalle cariche illegittime dei militari del Lombardia che attaccarono con armi proprie e improprie un corteo regolarmente autorizzato. "Criminale è la certezza dell'impunità, ricorda l'ex deputata del Prc ancora impegnata, dieci anni dopo, nella richiesta di verità e giustizia per quell'omicidio archiviato forse per sempre come legittima difesa sebbene un filmato restituisca l'evidenza di un ragazzo che provava a sollevare un estintore per difendersi, e difendere altri manifestanti, dalla minaccia di una pistola già spianata.
Di occasioni per rimettere all'ordine del giorno la repressione dei conflitti in agenda ce ne sono già due a breve scadenza. La prima venerdì e sabato prossimi a Bologna in occasione del 34° anniversario dell'omicidio di Francesco Lorusso, l'altro il 17 marzo, anniversario dell'Unità nazionale "ma anche decennale delle prove generali per la mattanza genovese", suggerisce Haidi Giuliani a proposito delle violenze di polizia a Piazza Plebiscito di Napoli seguite dal sequestro di alcuni manifestanti e dalle torture nella famigerata caserma Raniero. "Tutto ciò dimostra l'attualità del percorso Verso Genova 2011 - conclude Giuliani - che dovrà contare sulla partecipazione attiva più ampia possibile. Luglio non è poi così lontano. Nè il prossimo, nè quello del 2001".

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"Gestione opaca dell'ordine pubblico"

Melchiorre Spada
Ieri mattina si è presentato in redazione il commissario Montalbano. Non quello inventato da Andrea Camilleri e interpretato con maestria da Luca Zingaretti nella nota serie televisiva, ma il vero Montalbano, che noi nemmeno sapevamo esistesse. E invece sì che esiste ed è pure simpatico, in linea con il suo alter ego televisivo. Per farla breve, Montalbano è venuto a Liberazione per conto del questore, Francesco Tagliente, chiedendo perchè a via Genova, sede della Questura di Roma, non arrivano più le copie del nostro giornale. Se ne devono essere accorti solo ieri mattina. Chissà perchè? Immaginiamo la scena quando al telefono qualcuno ha chiamato per dire: "Avete visto Liberazione? Scrivono che le Forze dell'ordine hanno sparato il 14 dicembre scorso da dietro i blindati che ostruivano l'accesso in via degli Astalli. C'è pure la foto". Ma del giornale non c'era maledettamente traccia per le stanze della Questura e così qualcuno è dovuto correre all'edicola più vicina per acquistarne qualche copia. Sì, forse è andata proprio così e se non è così poco ci manca. Certo che non serviva rendere visita al direttore, Dino Greco, per riavere gli abbonamenti di cortesia. Bastava una telefonata. Ma si è capito che Montalbano, oltre ad andar via con la copia omaggio, è venuto ad annusare l'aria ed a farci capire che negli uffici della polizia la denuncia del grave episodio fatta da Liberazione viene presa sul serio. A differenza di quel che ha dimostrato l'intero circo dei media. Zero reazioni, la prima di Liberazione scomparsa dalle rassegne stampa, silenzio assordante per tutta la giornata. Nessun lancio d'agenzie fatta eccezione per la dichiarazione di Paolo Ferrero. Nessun commento dai palazzi della politica con la sola eccezione di Emanuele Fiano, esponente del Pd e membro del Copasir che in un dibattito radiofonico con il direttore Dino Greco ha prima provato a sostenere, senza grande fantasia, che la fiammata presente nella foto apparsa su Liberazione fosse quella di un laciagranate lacrimogene per poi in serata chiedere spiegazioni al ministro dell'Interno Roberto Maroni. In tarda serata arriva dall'Ansa una penosa velina: "la scena immortalata nelle foto pubblicate da Liberazione relative alla manifestazione studentesca di Roma del 14 dicembre, raffigurerebbe il lancio di un lacrimogeno, esploso da un carabiniere dal basso verso l'alto, e non un colpo d'arma da fuoco. A queste conclusioni si sarebbe giunti (chi è il soggetto?), in particolare, esaminando i filmati di quelle fasi della manifestazione e degli incidenti: l'analisi avrebbe appunto evidenziato che non si è trattato di un colpo d'arma da fuoco ma del lancio di un lacrimogeno, il cui fumo è la nuvola che si vede nelle foto". Evidentemente si parla d'immagini diverse, perchè nel video da cui è tratto il fermo immagine dal quale sono state ricavate le foto da noi pubblicate la fiammata non è diretta verso l'alto ma è in linea diretta perpendicolare al suolo, anzi si percepisce una leggera inclinazione del polso che impugna la pistola verso il basso, nel tentativo di correggere il tiro ad altezza d'uomo e non sopra le teste dei manifestanti. Soprattutto nessun lacrimogeno viene espulso dall'arma.
La denuncia fatta da Liberazione è stata invece presa molto sul serio dai legali dei manifestanti arrestati e sottoposti a processo per gli scontri avvenuti alla fine del corteo del 14 dicembre. Per Simonetta Crisci, "anche se via degli Astalli non è una delle scene dove si sono svolti i reati contestati, l'episodio è certamente significativo per quella che è stata la gestione della piazza da parte delle forze dell'ordine. Insomma a questo punto occorre domandarsi che ruolo hanno avuto le forze di polizia nel fare in modo che le cose degenerassero". Per Francesco Romeo quanto documenta Liberazione "conferma una gestione opaca della piazza che accumula nel tempo episodi su episodi e che ormai lascia spazi ad azioni quasi da squadrone sud americano. Sembra che in piazza, durante le attività di ordine pubblico si lascino le forze di polizia dare libero sfogo alla più svariate forme di violenza contro i manifestanti. Rischiare la vita per manifestare non è un buon segno". Secondo Romeo, "dopo i fatti di Genova ci si aspettava, come ci è stato più volte detto, che sarebbero cambiate tante cose nell'ordine pubblico. Invece questo episodio ci fa tornare bruscamente indietro. Questi colpi di pistola introducono una versione nuova alla narrazione della giornata del 14 dicembre. Si capisce meglio perchè c'è stato quell'epilogo finale".

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Checchino Antonini
Se fosse un film questa storia inizierebbe con le immagini di una manifestazione piccola piccola, a Ponte Galeria e finirebbe (per ora) con le foto pubblicate ieri da Liberazione. Località sperduta al di là della periferia ovest di Roma. Ponte Galeria è un luogo di case più o meno abusive a sfregiare la campagna, più in là l'aeroporto di Fiumicino. Ponte Galeria diventò famosa alla fine del secolo scorso quando, accanto alla decentratissima scuola della celere, spuntarono le gabbie del Cpt romano, luogo di feroce apartheid - nel comune sentire delle reti antirazziste - inventato da due ministri di allora, Turco Livia e Napolitano Giorgio.
Era il 15 gennaio 2000. Dieci anni prima era scoppiata la pantera nelle università di mezza Italia. Questo si dissero mesti due partecipanti alla minuscola manifestazione, reduci da quell'altro movimento. Intorno a loro c'erano poche decine di persone bloccate nel piazzale della stazione da uno spiegamento di forze in tenuta antisommossa che occupava fisicamente il budello di strada che portava alle gabbie per migranti che non avevano commesso reato alcuno. Quello di clandestinità sarebbe stato inventato dal successivo governo dai ministri Bossi Umberto e Fini Gianfranco.
Il film andrebbe avanti con la scena del tentativo di avanzata, dopo un nervoso fronteggiamento immobile, da parte dei manifestanti, dietro un salsiccione di gomma. Era l'uso del momento: mettere in gioco i corpi (con un po' d'imbottitura) per provare a forzare la situazione, dimostrando risolutezza ma senza offendere altre persone, mettendo spalle al muro chi gestiva l'ordine pubblico, la violenza era solo da una parte. Infatti, al di là del salsiccione si scatenò una gragnuola di manganellate e lancio di armi improprie contro i manifestanti. Fu spaccata la testa a un ingegnere in pensione, pacifista incallito, incapace per carattere di mostrare i muscoli. Durò pochissimo e non ebbe conseguenza alcuna sul destino della battaglia antirazzista e non sarebbe nemmeno il caso di dedicare tanto spazio a questo ricordo se il capo della piazza non fosse un commissario di polizia che, una quindicina di anni prima, giovane capitano di pubblica sicurezza era finito sotto processo per aver denunciato che il suo, alla celere di Padova, era un "mestiere violento" e che esisteva un settore di polizia che non voleva "più mettere a ferro e fuoco le città, ma inserirci nella realtà che ci circonda". Fu messo alla sbarra per attività sediziosa. In sintesi aveva denunciato che la celere agiva con metodi da guerra sporca nella gestione dell'ordine pubblico, che gli agenti - incoraggiati dagli ufficiali - truccavano con sabbia e tondini di ferro manganelli ritenuti troppo morbidi, toglievano la calotta ai candelotti lacrimogeni così da aumentarne la capacità penetrante, compravano fionde e biglie per attaccare i manifestanti. Non basta, il giovane capitano rivelò che il Reparto è un campionario quasi completo di reati comuni: furto, ricettazione, rapine, sfruttamento della prostituzione. E molti dei poliziotti avevano simpatie e contatti col mondo dell'estrema destra. Fu così che si iniziò a parlare di "polizia democratica" che ambiva a essere sindacalizzata e a scrollarsi di dosso, assieme alle stellette, anche l'eredità di Scelba. I pasoliniani figli del popolo avevano preso coscienza, volevano essere cittadini e lavoratori come gli altri, servire la Costituzione e non essere il braccio armato del potere. Il 25 aprile del 1981, nonostante la pesantezza emergenziale dell'epoca, la pubblica sicurezza diventò polizia di stato e ogni agente potè aderire al sindacato.
Nemmeno venticinque anni dopo di quella stagione non sembrava essere restato niente. Il capitano, divenuto commissario, aveva guidato un'azione con gli stessi metodi di chi lo aveva sbattuto sotto processo. La polizia s'era rimilitarizzata ma il grande pubblico lo avrebbe scoperto solo un anno e mezzo dopo, comodamente seduto sulle poltrone di casa, mentre migliaia di robocop con i colori di ogni polizia disponibile inseguivano e violentavano, con ogni mezzo a disposizione, i trecentomila manifestanti accorsi contro il G8 di Genova (come qualche mese prima a Napoli). Dopo ventitre anni ci riscappa il morto.
Le pratiche denunciate dal capitano coraggioso erano tornate in auge maturando nella mutazione della società italiana, trovando linfa nella montante emergenza sicurezza inventata senza pezze d'appoggio statistiche, nel nuovo modello di difesa, nella creazione di un fronte interno della guerra globale, nella riforma dell'arma dei carabinieri, nella professionalizzazione dell'esercito, nell'erosione dei diritti del lavoro e della cittadinanza, nello smarrimento che quell'erosione ha indotto nei tessuti sociali, infine nella ristrutturazione dei servizi segreti coordinati da una sorta di Negroponte italiano.
Dieci anni dopo il catalogo di brutalità, abusi, omicidi e depistaggi commessi da personale delle forze dell'ordine è così vasto da impedire che la stampa e le procure si girino dall'altra parte. E questa scia di sangue ha oltrepassato i confini degli scenari di piazza, dei contesti di conflitto, per macchiare i luoghi del contatto quotidiano, informale, tra gli uomini con la divisa (e la pistola) e quelli senza entrambe. E' una mutazione del ruolo delle polizie e della loro relazione col contesto - che poi è il rapporto coi cittadini e con la legalità. Di questo, anche, si parla quando si grida all'emergenza democratica nel Paese.
Di questo parla la vicenda legata all'omicidio di Federico Aldrovandi e al depistaggio delle indagini sui fatti. Il questore dell'epoca, come il capitano coraggioso, era stato tra coloro che, nei primi anni '70, aveva preso parte alle riunioni clandestine del movimento per la sindacalizzazione della polizia.
Se fosse un film, dalla solitudine della famiglia Aldrovandi, si passerebbe con una semplice dissolvenza alla scena più affollata di una conferenza stampa della famiglia Cucchi. All'apparenza il caso ha una fortuna mediatica e politica migliore di quella del diciottenne ferrarese ma spesso i cronisti enfatizzano aspetti marginali della vicenda. Quasi nessuno avverte l'urgenza di indagare quella mutazione genetica, di individuare strumenti di formazione e di garanzia tali per cui non debba più accadere che qualcuno ci rimetta la salute e le penne e alla fine anche la dignità se qualche appartenente di questi corpi decide di "superare la linea blu", come dicono negli Usa quando viene commesso qualche abuso nella gestione del servizio. Eppure, solo per fare alcuni esempi, sia le morti di Stefano Frapporti, Riccardo Rasman, Gabriele Sandri e la condanna del capo dei Ros o "solo" lo stupro appena denunciato da una donna transitata in una caserma dei carabinieri della periferia romana configurano un vero e proprio ribaltamento dell'emergenza sicurezza.
Il debate public è strabico e omertoso: si concentra sull'opportunità o meno che i funzionari colpevoli restino in servizio ma trascura di assumersi le proprie responsabilità sulla mancata istituzione di una vera inchiesta parlamentare (Violante e Di Pietro in testa) o sull'invenzione di strumenti di garanzia per tutti come il codice alfanumerico sulla divisa dei robocop che agiscono travisati in contesti di ordine pubblico. Nel frattempo, il sindacato unitario della polizia s'è sfaldato e i suoi frammenti non hanno mai voluto battersi per aprire una discussione con il resto della società. Anzi, in più di un'occasione, la galassia sindacale ha fatto quadrato attorno al Viminale anche quando gli abusi erano evidenti e danneggiavano i lavoratori stessi. L'Italia resta quello che Manlio Milani - sua moglie fu uccisa in piazza della Loggia - chiama "il paese dei comitati".