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Nella "Palermo nera", fine di uno che sapeva troppo
De Mauro sparisce il 16 settembre 1970. Il corpo non è mai stato ritrovato
Gemma Contin
Fonte: Liberazione, 16 settembre 2007
16 settembre 2007

Sequestrato sotto casa la sera del 16 settembre 1970. Strangolato, si dice, sotto gli occhi di Bernardo Provenzano da Mimmo Teresi, Emanuele D'Agostino, Stefano Giaconìa, tre picciotti della famiglia di Santa Maria di Gesù che verranno a loro volta fatti fuori nella guerra di mafia degli Anni Ottanta. Seppellito nel Bosco di Ficuzza... No: murato in un pilone della circonvallazione di Palermo dalle parti della Guadagna... o di Brancaccio... o di Bonagìa... Neppure: il corpo scaricato in piena campagna e lasciato ai cani tra la borgata di Villagrazia e il greto del fiume Oreto.
Non si saprà mai, dopo 37 anni di buio totale, che fine abbia fatto Mauro De Mauro, cronista del giornale L'Ora. E neppure perché. Perché sia stato sequestrato, perché non sia stato mai trovato, né su cosa stesse svolgendo le sue inchieste non solo di grande reporter del quotidiano "vicino al Pci", ma anche di corrispondente dell'agenzia Reuters, del Giorno, dell'Europeo.
I varchi, nella sua storia personale, in quella professionale, nelle indagini condotte dagli inquirenti, persino nella ricostruzione dei "Misteri italiani" di Carlo Lucarelli, sono tanti e portano a piste diverse, tutte inquietanti. Cominciando dalla sua vita e dalla partecipazione alle operazioni della Decima Mas del principe nero Junio Valerio Borghese, a cui rimarrà legato fino a dare il nome Junia a una delle figlie. O a quelle, si dice, delle torture fasciste in Via Tasso e, unico italiano, dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Fino all'adesione, quando il fascismo già tirava gli ultimi fiati velenosi, alla Repubblica di Salò.
Da quelle vicende lontane, di una vita altrettanto oscura che la morte, scomparirà subito dopo la guerra, e il suo percorso politico e umano chissà dove lo porta, se riapparirà, dopo anni di anonimato, con evidenti segni di torture subìte a sua volta: quel volto sfregiato, il naso rotto, claudicante.
Riapparirà a Palermo. Professione giornalista. E finirà a scrivere e a fare il suo lavoro di meticoloso ricercatore di notizie sulla mafia e di informato scrittore di inchieste su Cosa Nostra al giornale L'Ora, negli "anni ruggenti" del quotidiano di sinistra, quando la mafia faceva saltare le rotative e il suo direttore Vittorio Nisticò riceveva minacce un giorno sì e l'altro pure.
Ha 49 anni, De Mauro, quando, verso le nove di sera di quel 16 settembre 1970, in viale delle Magnolie - quartiere residenziale di Palermo a ridosso di viale Lazio, zona di speculazione edilizia ma dove abita la buona borghesia della città - la figlia Franca che sta rincasando con il fidanzato (il matrimonio è per qualche giorno dopo, ma non si farà) lo vede arrivare a bordo della sua Bmw. Lo aspetta, lo osserva mentre scende dalla macchina, si china a raccogliere l'inseparabile stecca di sigarette e un sacchetto con dentro una bottiglia di vino. Allora lo precede, apre l'ascensore, i minuti passano, lo chiama, non arriva. Franca torna indietro e vede il padre risalire in macchina, sollecitato da qualcuno che dice: «Amuninni! Andiamo». La Bmw parte a strattoni. Alla guida c'è il giornalista ma ci sono anche altri due uomini, forse tre, dirà poi la figlia agli investigatori.
La famiglia non si allarma subito. La moglie Elda pensa a un'emergenza al giornale. Ai suoi giri strani di informatori, di cui non parla mai. Come non parla mai delle inchieste che ha in cantiere, quasi a proteggere la sua famiglia da quello che sa: «Qualcosa di grosso», e da quello che succede in città, dove da qualche mese sta cambiando il panorama mafioso, dopo la strage di viale Lazio, il 10 dicembre 1969, in cui un commando di "corleonesi" travestiti da poliziotti, guidato da Totò Riina e Bernardo Provenzano, fa fuori tre esponenti dei rivali "palermitani". Moriranno Michele Cavataio e altri due mafiosi che erano con lui negli uffici del costruttore Moncada. Nello scontro armato rimarrà ucciso pure Calogero Bagarella, cognato di Riina che faceva parte del gruppo di fuoco.
La famiglia De Mauro non si allarma. Non sùbito. Anche se dopo un po' telefona al centralino del giornale L'Ora. Giusto per sapere se devono aspettarlo per cenare. Ma lì non ne sanno nulla. Comincia così a crescere l'ansia. Qualche altra telefonata al direttore Nisticò, al caporedattore Bruno Carbone, a vecchi colleghi come Etrio Fidora, Aldo Costa, Giuliana Saladino, che cadono dalle nuvole, finirà per spalancare quel varco, quel buco nero in cui Mauro De Mauro è stato inghiottito senza più riemergerne, né da vivo, né da morto.
Inutili tutte le ricerche. Verrà ritrovata dopo qualche giorno solo la Bmw, in via Pietro D'Asaro, quartiere Zisa, tre-quattro chilometri da casa. E le indagini dovranno farsi carico di molteplici piste. Quella dell'incidente aereo di Bascapé in cui morì Enrico Mattei, si dice in un attentato, mai provato, su cui il giornalista stava lavorando per conto del regista Francesco Rosi, cercando di ricostruire l'ultimo passaggio in Sicilia del presidente dell'Eni, l'incontro con il presidente dell'Ente minerario siciliano Graziano Verzotto e con l'avvocato Vito Guarrasi, uomo al centro di tutti i maggiori traffici economici e finanziari dell'Isola, soprannominato "Mister X", che aveva fatto da agente di collegamento durante lo sbarco degli americani in Sicilia e, ha detto il pentito Gioacchino Pennino, uomo certamente collegato alla Cia. Dunque qualcosa che aveva a che fare con il petrolio e con le Sette Sorelle, a cui, dice sempre Pennino, erano molto interessati anche i cugini di Salemi, gli esattori Nino e Ignazio Salvo. Pare che proprio per saperne di più si sia attivato uno strano personaggio, Nino Buttafuoco, vecchio consulente tributario di chi ha "i piccioli", della città che conta, il quale entra ed esce dalla vicenda, e si farà anche qualche giorno di galera, dopo aver cercato di ottenere informazioni dall'ignara e disperata famiglia con la promessa che «al 98% De Mauro ritornerà a casa sano e salvo». Ma la pista finisce lì. Archiviata.
La seconda traccia è quella seguìta con convinzione dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sul traffico di stupefacenti, negli anni in cui in Sicilia si andavano insediando - e ogni tanto si scoprivano anche - le raffinerie di grandi partite di eroina che poi decollavano da Punta Raisi nelle valigie delle donne della "Pizza Connection" per atterrare all'aeroporto di New York, dove le brave massaie "messaggere della droga" ricevevano in cambio altre valigette, questa volta piene di dollari, e tornavano indietro. Ma anche questa pista non ha portato da nessuna parte.
Un'altra, assai improbabile, è una specie di leggenda su cui si dice che De Mauro si apprestasse a scrivere: quella di un gruppetto di studenti universitari capeggiati da un giovane profugo greco, Statis Panagulis, che a bordo di una "barca pirata" partita da Palermo avrebbero dovuto approdare sulle coste elleniche per liberare dal carcere e dalle torture dei colonnelli il fratello Alekos, eroe della resistenza greca. Operazione fallita, forse neppure decollata, e mai scritta.
Per ultimo, nel 2001, trent'anni dopo la sparizione del giornalista nel silenzio della "lupara bianca", anche a séguito del supplemento di indagini chiesto dal giudice istruttore Giacomo Conte, il collaboratore di giustizia Francesco De Carlo, già picciotto di Altofonte inquisito per la morte di Roberto Calvi sotto il Ponte dei Frati Neri, racconta che Mauro De Mauro fu sequestrato, torturato per fargli dire il nome di chi aveva "tradito", strangolato da Teresi, D'Agostino e Giaconìa, seppellito alla foce del fiume Oreto, perché stava svolgendo un'inchiesta - lo scoop della sua vita - sul golpe Borghese denominato "Tora Tora" e sulle connessioni che l'eversione di destra aveva con Cosa Nostra, a cui non erano estranei pezzi dei servizi deviati, la massoneria, forse Gladio, che in Sicilia, in provincia di Trapani, aveva stabilito una delle sue basi operative. Insomma "la pista nera". «Una pista nera che puzza di mafia», scrive Attilio Bolzoni su Repubblica.
La soffiata, De Mauro poteva averla avuta da un vecchio camerata, o da uno dei sui informatori occulti, forse lo stesso D'Agostino. E poi si era messo in caccia. Era andato in giro, aveva cercato contatti, antichi e recenti, aveva fatto domande. Anche al Circolo della Stampa di Palermo, situato dentro il Teatro Massimo, con un ingresso laterale da cui si accedeva a una specie di club privato, circolo del poker, dove nobili decaduti, ufficiali in disarmo, giornalisti a tempo perso, burocrati in pensione e vecchi arnesi dei servizi, gironzolavano, bivaccavano, giocavano a carte, bevevano e fumavano. E parlavano.
Chi voleva sapere qualcosa di quello che succedeva a Palermo bastava che entrasse in quella specie di antro misogino e nel giro di una mano di poker, meglio se persa, di due bourbon, meglio se offerti, e di quattro chiacchiere con le persone giuste, riusciva a sapere tutto quello che c'era da sapere sui palazzi, il potere, e tutto quello che succedeva nella "città bianca" e nella "città nera", come diceva con feroce lucidità Salvo Licata, un altro giornalista de L'Ora.
Sarà stato lì, in quell'ambiente che ben conosceva e che frequentava, che Mauro De Mauro avrà fatto qualche domanda di troppo alla persona sbagliata. E la trappola è scattata. De Carlo racconta: «Quando Emanuele D'Agostino seppe al Circolo della Stampa che De Mauro era a conoscenza del golpe, raccontò tutto al suo capo che era Stefano Bontade, il quale avvertì gli altri membri della Commissione che erano Giuseppe Di Cristina di Riesi, Pippo Calderone di Catania, Totò Riina e Bernardo Provenzano, i quali mandarono a Roma un "avvocato" a parlare con il principe Borghese, con un certo Miceli che forse era un militare e un certo Maletti».
Fermiamoci qui. Cosa Nostra è Cosa Nostra. Junio Valerio Borghese è Junio Valerio Borghese. Il generale Vito Miceli è il capo del Sid, il Servizio informazioni difesa, tessera 491 della loggia massonica P2 di Licio Gelli. Il generale Gianadelio Maletti è il capo dell'Ufficio "D" del Sid, aderente alla P2 e inserito nella lista scovata a Castiglion Fibocchi con tessera numero 499. De Carlo fa riferimento a loro? Si vedrà.
Quello che è certo è che «da Roma partì l'ordine di chiudergli la bocca», dice il pentito: «Erano tutti preoccupatissimi che qualcuno conoscesse i dettagli dell'operazione Tora Tora», il piano insurrezionale guidato da Borghese che nella notte tra il 7 e l'8 dicembre, appena tre mesi dopo la sparizione del giornalista, stava preparando il rovesciamento del governo democratico e l'occupazione dei "palazzi". Mauro De Mauro era venuto a sapere tutto, qualcuno sospetta da un vecchio commilitone, e anche che Borghese aveva arruolato Cosa Nostra. «Ci avevano assicurato che nessuno di noi sarebbe più andato al soggiorno obbligato - sostiene De Carlo - o avrebbe più subìto provvedimenti di sorveglianza speciale. E che il nuovo governo avrebbe dato un colpo di spugna sul passato».