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Sofri: «Non vorrei morire senza aver pagato il mio debito con Pinelli»
Concita De Gregorio
Fonte: L'Unità, 11 gennaio 2009
11 gennaio 2009

«Ho raccontato questa storia a una ragazza di vent'anni. No. Non è un artificio, è la verità. Mentre rileggevo e studiavo le carte dei processi, migliaia di pagine, veniva a trovarmi spesso qui nella mia prigione domestica una ragazza intelligente e curiosa. Curiosa di una curiosità persino aggressiva a volte, quella di chi non sa bene non c'era ha orecchiato si interessa non capisce, domanda e ridomanda ancora. È stata un'interlocutrice fondamentale, per me: raccontare a chi non sa, riraccontare per la prima volta. È stato come ripercorrere ad alta voce quarant'anni di vita anche a me stesso: per la prima volta, proprio. Osservavo la sua reazione stupefatta. "Incredibile" è l'aggettivo che ha usato più spesso, a commento. Incredibile. No, non è stato difficile raccontare. Erano anni che ci pensavo. Era da quando in carcere leggevo di certe domande fatte a scuola agli studenti: "Sofri? Sì, lo so chi è. Uno che ha a che vedere con qualcuno caduto da una finestra". Volevo rivolgermi ai ragazzi di oggi, lo volevo da tempo. Così quando è arrivata lei con le sue domande è stato come in quella canzone di Calvino, 'o ragazza dalle guance di pesca dalle guance d'aurora, io spero che a narrarti riesca la mia vita all'età che tu hai ora', la ricorda? È una vecchia canzone. Ma poi non è nemmeno proprio così perché questo libro non parla di me, non è la storia di Adriano Sofri, che importanza potrebbe avere in fondo. No. È un libro su Pinelli. S'intitola così. 'La notte che Pinelli'. È un debito che io pago. È questo, ed è per questo che mi preme tanto, proprio molto: è il debito che pago alla memoria di Pinelli».
«No, non c'è una ragione per cui abbia deciso di scriverlo adesso. Intendo non c'è un fatto, un episodio. No, non è affatto nato in risposta al libro di Mario Calabresi, è una colossale sciocchezza, quel libro del resto non ricostruisce la vicenda. È altro. Caso mai mi sono misurato col libro di Gemma Capra, lo scrisse con Luciano Garibaldi e aveva, quello sì, una volontà di ricostruzione. Certo, è stato molto tempo fa. Del resto è molto tempo davvero che con Elvira Sellerio parliamo del progetto. Gli anni passano. Le cose della vita accadono, a volte terribili. Non stiamo più tanto bene in salute, né lei né io. Accade più facilmente a quest'altezza della vita di pensare: mi dispiacerebbe morire senza averlo fatto. Ecco, è questo. Avrei potuto, è quasi successo, morire senza scrivere questa storia. Certo non sarebbe stato niente di grave. Comunque ho preferito di no».

«No, davvero non riesco a riassumere quel che di nuovo ho potuto riferire nelle pagine. Moltissimo, potrei dirle. In misura sorprendente. Vorrei che il libro fosse letto. Sono quasi 300 pagine ma si legge rapidamente, spero col fiato corto. Dopo ci si potrà arrabbiare, commuovere, litigare, indignare. Solo dopo, però. Perché è incredibile, come direbbe la ragazza di vent'anni, quello che sulle cosiddette anticipazioni si è riusciti ad imbastire. Mi hanno detto che il Tg2 lo ha annunciato come il 'mea culpa di Sofri': una richiesta di perdono. E per di più hanno aggiunto: «Troppo tardi». Due mesi fa, per la polemica che ci fu sul terrorismo e la celebrazione delle vittime alle Nazioni unite, dissero che difendevo un omicidio. Oggi dicono che chiedo perdono. Alla cieca, senza sapere quale sia l'oggetto. Ho letto che D'Ambrosio crede che io abbia dato ragione alla sua sentenza: l'idea stessa che io pensi che Pinelli si sia suicidato mi offende. Nel libro uso le carte di D'Ambrosio contro la sentenza di D'Ambrosio. Le sue conclusioni sono del tutto implausibili. Sarei lieto di discuterne con lui. Dopo che avrà letto, se vorrà farlo, naturalmente».

«In fondo si tratta di questo: riscattare una vicenda dalla convinzione che sia storia nota e risaputa. È invece in larga parte ignota e di continuo deformata. Il solo fatto che per le vicende legate alla strage di piazza Fontana sia io l'unico detenuto è un paradosso. I colossali equivoci di questi giorni di anticipazioni mi suscitano enorme turbamento. Non c'è niente che io dichiari 'per la prima volta'. Sì, certo che ho scritto che probabilmente il commissario Calabresi non era in quella stanza. L'avevo già scritto e detto molte volte. Certo che ho scritto 'mi sento corresponsabile per aver lasciato che si dicesse: Calabresi sarai suicidato'. L'ho già fatto, l'avevo già detto. Molti anni fa Montanelli mi chiese pubbliche scuse a Gemma Capra per la mia responsabilità morale. Pensavo e penso di averlo fatto. L'ho fatto. È una discussione marginale che porta fuori dalla strada strada: molte volte ho spiegato, nel libro lo faccio ancora, che cosa è per me la responsabilità morale, il rapporto fra le parole e i fatti. Cosa sia stata la 'violenza di Stato'. Cosa sia 'il contesto'. Se ha pazienza, ecco, a proposito di contesto vorrei dirle quanto mi preme ricostruire le ragioni di coloro che firmarono il famoso appello pubblicato sull'Espresso, divenuto proverbiale paradigma del cinismo e della brutalità dell'intellighenzia di allora. Quello in cui si parlava di 'commissari torturatori'. Lo firmarono Primo Levi e Giorgio Amendola, Fellini, Pajetta. Quasi un migliaio di persone, tutti quelli che furono raggiunti. Ho avuto mentre ero in carcere uno scambio di lettere con Norberto Bobbio. Nella sua ultima lettera mi ha scritto che il linguaggio usato nell'appello gli pareva, a rileggerlo tanti anni dopo, terribile ma che ribadiva la sua condanna sul modo in cui il potere aveva occultato le sue malefatte. Il contesto può essere il rifugio dei farabutti, non cessa per questo di essere l'unico metro utile a ricostruire quanto più onestamente possibile una storia».

«No, non posso qui davvero dire quale sia il passaggio fondamentale del libro. È il libro ad essere fondamentale per me. Mi perderei nei dettagli. Un libro è quello che racconta ma è anche il modo in cui lo racconta. Non è un verbale di polizia. Questo ho desiderato che fosse: analitico, dettagliato e romanzesco insieme. Non ho grande esperienza di polizieschi ma li immagino così. Si parte dalle carte. Dagli attori. Si procede per episodi. Parliamo del 'malore attivo' di Pinelli sul quale le battute si sprecano da 35 anni, per esempio. Le carte sono unanimi nell'escludere il malore. D'Ambrosio le inquaderna tutte e poi conclude, in modo paradossale: è stato un malore. Parliamo delle telefonate fra Calabresi e Licia Pinelli. Quando Pinelli cade in cortile, agonizzante, nessuno tra coloro che erano nella stanza scende a vedere, a soccorrerlo. Licia Pinelli informata dai giornalisti che erano in questura telefona a Calabresi, col quale aveva già parlato altre due volte nel corso dell'interrogatorio. Gli domanda "perché non mi avete chiamata" lui le risponde "signora, abbiamo molto da fare". È una materia delicatissima, questa, tocca i sentimenti più fondi delle persone rimaste vittime dei fatti e bisogna procedere con grandissima cautela. Gemma Capra nel suo libro sostiene che non è possibile che sia stato suo marito a parlare con Licia, ad usare quelle parole. Nelle carte che ho qui è a verbale, però, un avvocato chiede conto di quella conversazione: Calabresi risponde che avvenne "nell'agitazione del momento". Avvenne. Nell'agitazione del momento».

«È tutto nuovo, in un certo senso, anche per me. Dopo il libro della Cederna, dopo Dario Fo addentrarsi nei verbali e poi sintetizzarli, raccontarli a chi quasi nulla sa è davvero fonte di continue sorprese. È tutto scritto, è stato tutto cristallizzato o manipolato. È continuamente deformato. Anche oggi, in questa grottesca diatriba preventiva sul libro non ancora uscito: cosa vuol dire Sofri? Confessa, si pente, si scusa? È tutto così imbarazzante, è in fondo così triste. Che cosa mi chiede, come è morto Pinelli? Non si è suicidato, non ha avuto un malore. Di questo sia sicura. No, non posso dirle neppure che cosa sia successo in quella stanza. Posso dirle però che il libro finisce proprio con questa domanda. È la ragazza che me la fa alla fine. Con pudore, con esitazione. Mi ha seguito in un racconto terribilmente lungo e complesso, ha avuto già tutte le risposte e però resta con una domanda ancora. Proprio come lei adesso. E così come sta facendo lei mi chiede, infine: cosa pensi che sia successo quella notte al quarto piano della questura? Le rispondo la verità, certo. Non lo so, ragazza, cosa sia successo».

Vedi anche:
Giuseppe Pinelli: La notte che Pinelli