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"Malore attivo" di un anarchico
Saverio Ferrari
Fonte: Liberazione, 16 dicembre 2007
16 dicembre 2007

Le carte giudiziarie di Giuseppe Pinelli solo in parte si trovano oggi nella disponibilità dei familiari. Giacciono per lo più ancora sparse tra gli archivi del Tribunale di Milano o dei diversi avvocati che se ne occuparono. Raccoglierle in un unico fondo, e metterle a disposizione di chiunque volesse rileggerle, sarebbe un modo concreto per continuare ad alimentare la memoria di una vicenda che molti vorrebbero definitivamente seppellire. Questo l'obiettivo del Circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa nel trentottesimo anniversario della morte dell'anarchico, avvenuta nella notte tra il 15 e il 16 dicembre 1969.

Una "morte accidentale"
La vicenda giudiziaria, ricordiamolo, fu assai tortuosa. Nel maggio 1970, su proposta del pubblico ministero Giovanni Caizzi, il giudice istruttore Antonio Amati archiviò sbrigativamente la vicenda come "morte accidentale". Si scoprì in seguito che pur di giungere a questo esito non erano stati nemmeno svolti gli accertamenti di rito riguardo il punto e l'ora della caduta del corpo e che il collegio peritale non aveva pensato di recarsi sul posto.
Ma già dal 15 aprile, Luigi Calabresi aveva querelato per "diffamazione continuata e aggravata" Pio Baldelli, direttore responsabile del quotidiano Lotta Continua che aveva promosso una sistematica campagna di denuncia, con articoli e vignette, attribuendo al commissario precise responsabilità.
Il procuratore generale di Milano, Enrico De Peppo, prima di assegnare la causa fece in modo, ritardando i tempi, che l'archiviazione di Caizzi giungesse a compimento. Si aprì così solo nell'ottobre del 1970 il processo per diffamazione che, per altro, portò nell'aprile del 1971 alla richiesta di riesumazione del cadavere di Pinelli per ulteriori accertamenti. Attraverso nuove perizie medico-legali si intendeva verificare se fosse ancora possibile rinvenire sulla salma tracce di un colpo di karatè, sferrato durante gli interrogatori, che aveva leso il bulbo spinale. Forse la vera causa della morte, da cui la successiva defenestrazione e la messa in scena del suicidio.
L'avvocato di Calabresi, Michele Lerner, ricusò a questo punto il giudice Biotti per aver anticipato in un colloquio privato le proprie convinzioni sulla colpevolezza di Calabresi.
Il 7 giugno 1971 la Corte d'appello rimosse il giudice dall'incarico ed il processo si arenò definitivamente.
Solo il 4 ottobre del 1971 si riaprì il caso, quando su denuncia della vedova Licia Rognini, il giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio emise sei avvisi per omicidio volontario contro il commissario Calabresi, i poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Piero Mucilli ed il tenente dei carabinieri Savino Lo Grano.

L'archiviazione
L'istruttoria si concluse il 27 ottobre del 1975 con il proscioglimento di tutti gli indagati. Una sentenza passata alla storia. Pinelli, sostenne D'Ambrosio, non si era suicidato ma nemmeno era stato assassinato. «Verosimilmente», a causa di un «malore attivo» e dall'«improvvisa alterazione del centro di equilibrio» era stato violentemente sospinto fuori dalla finestra. Giuseppe Pinelli alto 1,67, sentendosi male, invece di accasciarsi, come ogni altro essere mortale, con un balzò inconsulto e involontario si ritrovò invece a scavalcare una finestra di 97 centimetri, spalancando al contempo, quasi in volo, le imposte socchiuse. Una tesi senza precedenti nella storia del diritto, rimasta ancor oggi unica nel suo genere. Gli stessi periti d'ufficio esclusero la possibilità dell'evento, in assoluto contrasto con le più elementari leggi della fisica e della medicina legale. Per altro, su Pinelli non furono rinvenute ferite sulle mani e sulle braccia a dimostrazione che il corpo era già inanimato al momento della caduta. Così dicasi per l'assenza di perdita di sangue dal naso e dalla bocca. Non bastò. Il giudice, nonostante le smentite alla propria tesi provenienti dagli stessi indagati, ciascuno dei quali aveva rilasciato testimonianze diverse e contrastanti fra loro, in cui mai si parlò di malore, la sostenne senza fornire alcuna prova o riscontro concreto.
In questo frangente anche il caso clamoroso del brigadiere Vito Panessa che addirittura affermò che nel tentativo di afferrare l'anarchico si ritrovò con una scarpa in mano, quando Pinelli venne rinvenuto nel cortile della questura con ambedue le scarpe ai piedi.
Si aggiunse come beffa finale il provvedimento di amnistia per Antonino Allegra, capo dell'ufficio politico, circa i reati di abuso di potere e arresto illegale di Giuseppe Pinelli.

Ricordare tutto
Tra i testimoni ancora in vita Pasquale Valitutti. Si trovava quella notte in questura nel salone dei fermati ed escluse sempre in maniera categorica di aver visto uscire dal suo ufficio, negli ultimi quindici minuti precedenti la precipitazione di Giuseppe Pinelli, il commissario Luigi Calabresi. Testimoniò di aver sentito «come delle sedie smosse», aggiungendo di aver «visto gente che correva nel corridoio gridando "si è gettato". Alle mie domande hanno risposto che si era gettato il Pinelli: mi hanno anche detto che hanno cercato di trattenerlo ma non vi sono riusciti. Calabresi mi ha detto che stavano parlando scherzosamente del Pietro Valpreda, facendomi chiaramente capire che era nella stanza al momento in cui Pinelli cascò». Non venne mai creduto. Era anarchico. Ricordarlo in tempi di beatificazione del commissario Calabresi potrà non piacere. Ma va detto.
Solo pochi giorni fa, Licia Pinelli confidava a un amico: «Prima di morire vorrei vedere la verità anche in un'aula di tribunale, vorrei sapere che cosa accadde davvero in quella stanza». Anche per questo, ridire tutto a voce alta continua ad essere un dovere.