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Peppino Impastato ci ricorda l'importanza di cultura (critica) e antimafia sociale
Giovanni Russo Spena
Fonte: Liberazione, 9 maggio 2009
9 maggio 2009

Trentuno anni fa venne ucciso, dalla mafia, Peppino Impastato. Non lo ricordiamo con una memoria rituale e puramente nostalgica ma con passione per la grande attualità della sua figura. Ricordare per continuare, come affermano giustamente il fratello Giovanni, Umberto Santino, tutte le compagne ed i compagni che hanno sfidato isolamento e repressione con una tenacia straordinaria e grande capacità di ricerca. La cultura, infatti, era, per Peppino, fondamento della critica del potere, politica in senso alto. Una cultura critica ed una capacità di indignazione e di ribellione non sono forse presupposti attuali della rifondazione di una sinistra alternativa? Con Peppino, in cento passi della memoria e dell'impegno, è in campo una idea "altra" di meridionalismo, una metafora ideale che combatte l'intreccio perdurante, anzi crescente, tra economia legale ed illegale; tanta parte delle politiche amministrative, finanziarie, produttive, urbanistiche è, oggi, l'identità stessa delle mafie (se è vero che gli ultimi rapporti ufficiali, a mio avviso largamente settoriali e sottostimati, descrivono la mafia come una holding da 130 miliardi di euro di fatturato). Peppino ancora ci dice che l'antimafia sociale (quella non parolaia e di regime) è un paradigma fondativo attualissimo di un punto di vista anticapitalista contemporaneo: non è una nicchia entro cui si racchiudono territori arretrati in attesa dello sviluppo; ma il fondamento di una riconsiderazione necessaria della qualità stessa dello sviluppo, che dovrà basarsi, per sconfiggere le mafie, sullo sviluppo autocentrato, sulla decrescita. Non certo sul gigantismo delle opere infrastrutturali del regime e sul Ponte sullo Stretto. Peppino ci parla di socializzazione, di autorganizzazione civile, di un nuovo spazio pubblico basato sul protagonismo. Le mafie vanno colpite nei beni, nei profitti, nelle ricchezze, perché sono processo di accumulazione del capitale, borghesia mafiosa; la lotta alle mafie non è altra cosa rispetto alla lotta alla precarietà, per l'occupazione, per il salario sociale; contro la vergogna delle inciviltà verso i migranti, del conflitto interetnico, dei migranti ridotti, nelle campagne meridionali e siciliane, alla nuova schiavitù. Avevano relegato Peppino in un cono d'ombra; il potere l'ha indicato, dal 1978 fino al 2001, come un "terrorista", favorito dal clima creato dall'uccisione di Aldo Moro. Vi è, allora, anche un aspetto istituzionale, anzi di morfologia del potere da ricordare: per insabbiare la verità sull'uccisione di Peppino, che i suoi compagni subito gridarono e coraggiosamente pretesero, è stato organizzato da settori politici, dei carabinieri, della magistratura, un infame, colossale "depistaggio". Ci sono voluti 23 anni, con il coraggio di una parte della magistratura, con l'opera nostra in Commissione Antimafia (e, soprattutto, per l'attività straordinaria dei familiari e dei compagni di Peppino) perché sentenze e relazioni parlamentari accertassero che l'uccisione di Peppino configurava un delitto politico-mafioso di grande rilievo. Chiediamo oggi che questo avvenga per le tante stragi impunite. A partire da Portella della Ginestra, dall'assassinio di Placido Rizzotto, di tanti braccianti, tanti sindacalisti per riscrivere anche istituzionalmente la storia popolare della lotta contro le mafie. Solo così l'antimafia sociale può incontrare una svolta democratica dell'intero sistema politico. Ma il silenzio parlamentare del Pd, dell'Italia dei Valori è, purtroppo, allarmante. E la maggioranza di governo sta riscrivendo anche la storia dell'antimafia, considerandola, forse, una fucina di bolscevichi... Peppino parla quindi a noi, oggi, ancora di più, per il suo rigore scientifico, la sua tensione, la sua passione. Anche se tentano di trasformarlo in una icona imbalsamata, in un "santino" (come stanno tentando, del resto, con Che Guevara) va ricordato che Peppino fu, come amava rivendicare, un sessantottino, un comunista. Fu un organizzatore sociale e politico; organizzò il conflitto bracciantile; occupò terre. Fu un innovatore culturale, anche sul piano della comunicazione: "Radio Aut" fu esempio straordinario della capacità comunicativa di attaccare il comando mafioso anche con lo sberleffo, con la satira aspra e documentata che parte dall'inchiesta sul territorio. Ricordiamo Peppino, oggi, dopo tanti anni, con il sentimento vivo e l'affetto di chi si sente, anche emotivamente, parte di uno splendido impegno collettivo. Tanto più perché controcorrente.