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Sono Piero, ma mi chiamano il Generale
Marco Philopat
Fonte: Liberazione, 18 marzo 2008
18 marzo 2008

Sono Piero, ma mi chiamano il Generale. Ho fatto il barista al Leoncavallo per vent'anni, da dietro il bancone ero l'unico a essere inflessibile, i compagni non potevano mica scroccare da bere con me e chi si comportava come un maiale lo stoppavo ad alta voce. Così è venuta fuori 'sta storia del Generale. Sono nato in un piccolo paese di tremila abitanti in provincia di Matera. La mia famiglia era contadina e mio padre disertò dall'esercito nel 1943 e fu condannato. Nel 1946, con l'amnistia dell'allora guardasigilli Togliatti, tornò da uomo libero alle sue terre di origine diventando comunista. Quando ero piccolo mi portava spesso alle riunioni del Pci e in paese, oltre all'oratorio dove non andavo mai, c'era il circolo della Fgci che invece frequentavo fin dai dieci anni perché c'era la televisione, il flipper e il biliardino. Nel 1972 arrivai a Milano, avevo diciassette anni ed ero un comunista convinto. Casa mia era in via Conegliano, una trasversale di via Leoncavallo. Lavoravo come apprendista in una piccola ditta artigianale in via Vallazze, sempre nel quartiere Casoretto. I miei colleghi erano dei compagni, alcuni siciliani e altri pugliesi, partecipavano alle attività del Movimento Studentesco, il comitato antifascista militante di piazza Gobetti, a Lambrate. Ci andai per qualche anno ma sempre un po' in disparte, fino quando non aprì, proprio di fronte a casa mia, il centro sociale Leoncavallo. Ogni mattina e ogni sera per andare e tornare dal lavoro ci passavo davanti. All'interno, l'ambiente mi ricordava in qualche modo il circolino del mio paese, ma ci andavo solo per assistere ai concerti di cui ero appassionato. Ricordo che avevo un piccolo registratore e me lo portavo per poi ascoltare i gruppi musicali anche a casa. Devo avere ancora quei nastri da qualche parte, forse si sono smagnetizzati, mah... Dopo il lavoro cominciai a fermarmi al bar della trattoria "Da Mauro" vicino all'entrata del centro sociale, conobbi così un po' di compagni del centro, Carmelo, Dario, Lino, Cicca, Iaia, Iaio e molti altri. Entrai nel loro giro e quando c'erano i concerti li aiutavo a pulire la sala, il bar o fare altri lavoretti perché in quel modo non pagavo il biglietto di ingresso. Come apprendista artigiano guadagnavo centoventi lire all'ora e il biglietto costava due o trecento lire, per me era un bel risparmio. Quindi cosa facevo? Dopo il lavoro andavo subito a pulire il Leo, poi uscivo e stavo da Mauro a chiacchierare con gli altri bevendo la spuma o delle birrette. Dopo cena, che facevo sempre a casa, rientravo al Leo per il concerto, i compagni alla cassa mi riconoscevano e mi facevano entrare con il mio piccolo registratore. Stavo benissimo, girava tanta allegria in quel posto.

Il giorno del fattaccio c'era in programma un concerto di blues e io avevo dato una mano a spazzare il salone. Passai come al solito, una ventina di minuti da Mauro e poi a casa per cena. Mentre chiudevo la porta e mi apprestavo e ridiscendere le scale, sentii le sirene delle ambulanze... Sulla via Leoncavallo all'altezza dell'entrata di via Mancinelli, la polizia in borghese aveva già effettuato un blocco e nessuno poteva entrare da lì. Volevo andare a bere il caffè ma vedendo della gente che correva, mi ero informato. Chiesi subito al primo che conoscevo: "cosa sta succedendo?", "hanno ammazzato due compagni qui dietro!" Piangeva e mi scappò via velocissimo... Così, senza nemmeno prendere il caffè girai intorno all'isolato e raggiunsi il luogo dell'uccisione dove c'era già un bell'assembramento. Fausto l'avevano appena portato via e al di là delle transenne stavano adagiando il corpo di Iaio su una barella. Mi ricordo un particolare, mentre ero lì che stavo meditando tristemente. Era da poco passato l'otto marzo, una compagna arrivò con un mazzo di mimose e lo appoggiò sul marciapiede vicino al sangue che lentamente scivolava sull'asfalto. A poco a poco una punta di quel sangue andò a toccare i piccoli pallini gialli e spugnosi della mimosa tingendoli piano piano di rosso, uno dopo l'altro... E' quella un'immagine che non mi sono mai più tolto dal cervello... Mi ricordo persino il nome della ragazza che mise quel mazzo lì per terra. Credo si chiamasse Lia e io la conoscevo solo di vista. Niente... Quella sera sono rimasto davanti a quelle mimose finché qualcuno le ha spostate buttando della segatura sulla pozza di sangue. Non me la sentivo di andare in manifestazione con gli altri a fare il giro del quartiere, ero davvero scioccato. Il corteo andava in lungo e in largo per il Casoretto diventando sempre più grande e quando passarono davanti alla sezione del Pci, presidiata da alcuni sindacalisti, lo slogan gridato come un boato verso la loro direzione fu: "La lotta antifascista è qui, dov'è, dov'è il Pci!!". Verso l'una di notte lasciai tra le lacrime il posto dell'omicidio per dirigermi a casa, ma prima di rientrare andai in una delle tre cabine del telefono che c'erano davanti al Leo, nell'area del distributore di benzina. Telefonai a Daniele Biacchessi che allora lavorava a Radio Lombardia in viale Gran Sasso e io conoscevo da qualche mese. Gli dissi della morte di Fausto e Iaio, gli raccontai il tutto velocemente, quasi concitato, tanto da non chiedergli se già lo sapeva. Niente... Il giorno prima dei funerali, con cinque degli otto dipendenti della mia ditta, decidemmo di dire al padrone che all'indomani mattina non saremmo andati a lavorare per scendere in piazza. E così avvenne. Alla manifestazione c'era una marea di gente, per la prima volta mi sentii uno del Leoncavallo a tutti gli effetti, da allora il mio rapporto con il centro sociale si intensificò e mi presi la responsabilità di tenere il bar quasi tutte le sere. All'inizio mi limitavo ad aiutare un po' vendendo le lattine e dando una mano al bancone, con il tempo, quando al centro non veniva più nessuno erano più le birre regalate che quelle vendute. Ci voleva un cambiamento, così decisi di diventare un barista serio e mi misi a fare il fiscale senza guardare in faccia nessuno. E a chi rompeva le palle ero sempre il primo a farglielo notare, anche bruscamente. Il Generale è venuto fuori per questo motivo, ora tre o quattro generazioni di compagni mi conosce con questo nome. Ebbene sì, sono il Generale del Leoncavallo e guai a chi si dimentica di Fausto e Iaio!