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"Genova 2001, non battaglia ma repressione"
Checchino Antonini
24 luglio 2012

A volergli trovare una falla, la relazione di Marco Doria sui fatti del G8 glissa su Piazza Alimonda, sull'omicidio Giuliani, non sembra ricordare che gli scontri nacquero dall'attacco illegittimo di una banda di carabinieri a un corteo regolarmente autorizzato. Non ricorda o non sa che Carlo raccolse l'estintore solo dopo aver visto la pistola del killer sbucare dal defender.

Eppure, «nel luogo più drammatico e controverso» di quelle giornate - per usare le parole di Antonio Bruno, capogruppo Prc a Tursi - il sindaco di Genova c'era stato quattro giorni prima, mettendoci la faccia mischiato alla piccola folla di ostinati "ricordatori", nell'anniversario proprio di quello sparo che fermò la vita di un ventitreenne.

Undici anni dopo il consiglio comunale dedica anch'esso un paio d'ore al ricordo. A volergli trovare dei pregi, la relazione del sindaco Doria, in carica da 63 giorni, spiega perché ricordare («perché il passato recente è utile alla coscienza civile dell'oggi») e fissa alcuni punti chiave. Ad esempio che la ferita per la città era iniziata ben prima delle manifestazioni: nella militarizzazione, nella costruzione di muri e zone rosse, nell'ossessione di svuotare la città per l'arrivo dei potenti della Terra.
Furono questi elementi a convincere il futuro sindaco di restare e scendere in piazza tranne nella giornata delle azioni su cui era in deciso disaccordo (come ha anticipato a Globalist il 20 luglio scorso) e che anche ora rubrica alla voce "inaccettabile vandalismo". Ma a chi insiste a dire che anche il giorno appresso ci fu baruffa tra opposti estremismi (quello di certa polizia e quello di taluni manifestanti), Doria spiega nettamente: «Non fu battaglia ma repressione». E poi ancora i fatti della Diaz e di Bolzaneto «resi possibili dal contesto politico, dalla percezione che ci sarebbe stata tolleranza per quelle violenze».

E le sentenze non esauriscono l'esercizio della memoria anche perché quelle sentenze sono fallate dall'assenza del reato di tortura. Nel dibattito che seguirà, le sinistre chiederanno un gesto concreto come quello di chiedere al governo di dare seguito alla ratifica della convenzione dell'Onu sulla tortura. Solo Rifondazione, però, insisterà nel dire che undici anni fa ci fu «un salto nella gestione paramilitare dell'ordine pubblico» quanto mai inquietante in tempi come quelli annunciati dalle piazze greche e spagnole. Il Pdl parlerà per bocca di una seconda linea, un ex carabiniere di leva negli anni '70 proveniente dalle fila di Cl e che ripete a pappardella le versioni sui bravi padri di famiglia in divisa aggrediti dai manifestanti. Il leghista, invece, si emancipa dai cliché e punta l'indice sulla criminale globalizzazione delle multinazionali e della finanza (qualcuno gli dica che c'erano i suoi al governo allora e in tutti questi anni).

Chi parla del Pd scopre che la ferita è ancora aperta, che il G8 fu il fallimento dello Stato e che ci vorrebbe proprio quella commissione d'inchiesta parlamentare a cui il suo Violante sbarrò con decisione la strada. Una donna, dal pubblico, gli grida «ipocrita» e la portano via i vigili. Il più surreale sarà comunque il capogruppo dell'Idv, partito che in Liguria è saldamente in mano a uno dei 16mila poliziotti che in quel G8 scorazzavano in tenuta antisommossa terrorizzando la città. Anche il consigliere che prende la parola - un omone rasato e abbronzato - ci tiene a dire che ha 30 anni di polizia sulle spalle e nessuno si meraviglia quando dice che evidentemente 16mila robocop erano pochi per impedire alla città di essere vandalizzata dai manifestanti poi «graziati». La verità è fuori ordinanza. La città pensa ad altro. Sugli spalti sedici giornalisti, spettatori circa sei.