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Sei anni dopo Genova 2001, la nostra memoria collettiva
Supporto Legale ( Gruppo di sostegno alla Segreteria Legale e agli avvocati dei processi relativi al G8)
10 ottobre 2007

«La storia siamo noi» non è uno slogan. E' un approccio preciso: da un lato la storia sociale, dall'altro la storia del potere. Chi lo ha cantato in questi anni lo ha fatto con l'istinto di chi sa di aver vissuto un pezzo importante della storia, ufficiosa o ufficiale che sia. E lo ha fatto pensando a Genova 2001. Con ogni mezzo necessario.
Ma dal giorno in cui è iniziata la requisitoria dei Pm Andrea Canciani e Anna Canepa (Magistratura Democratica), la storia la scrive qualcun altro. E pare che le 300mila persone che hanno cantato quella canzone 6 anni fa, non si accorgano di nulla. (Anche ieri, nella sua requisitoria, Canciani ci ha riprovato: «Non è vero che ci sia stata una caccia all'uomo da parte delle forze dell'ordine su manifestanti inermi. Le violenze commesse dai dimostranti non sono state determinate dagli interventi delle forze dell'ordine» ha detto, ndr ). L'epoca moderna è piena di pezzi di storia scritti da tribunali, giudici e pm convinti di asserire l'unica verità possibile, anche a scapito della realtà che tutti hanno vissuto sulla propria pelle: le sentenze per piazza Fontana, per Brescia o Bologna, non sono poi così distanti.
In questi giorni la verve accusatoria attacca frontalmente la nostra memoria collettiva, assumendosi l'onore e l'onere di essere il più fine ingranaggio del potere, come sempre e nonostante i tanti piagnistei bipartisan della politica di palazzo. Quello che alimenta la nostra rabbia è l'ipocrisia, la falsa moralità, la volontà non solo di agire contro i nostri stessi ricordi, ma anche la speranza di salvare le apparenze di una giustizia giusta che non esiste. Nella loro requisitoria i Pm non si sono risparmiati: hanno biasimato le violenze delle forze dell'ordine, la gestione dell'ordine pubblico paragonato a una guerra tra bande, la partigianeria di testimoni inqualificabili come rappresentanti dello Stato. Hanno però voluto porre un limite alle accuse e a un processo che si deve occupare solo delle devastazioni dei manifestanti; tutto il resto non può essere usato davanti alla Corte.
Allora non si può parlare delle spranghe di ferro usate dai carabinieri nella carica di Tolemaide, perché non hanno avuto alcun effetto diretto sulle devastazioni dei manifestanti, che al momento non se ne sono certo accorti; non si può parlare di Alimonda, un fatto tragico, ma già archiviato; non si può dubitare che le centinaia di lacrimogeni sparati sul lungomare non abbiano mai raggiunto il corteo, ma solo la piazza antistante lo schieramento di polizia; non si può non notare che in via Tolemaide ci siano stati solo 100 secondi di corpo a corpo e che, quindi, le cariche non siano state così violente; non si può non notare che, in fondo, il blindato abbia caricato ad alta velocità i manifestanti solo due o tre volte. Quindi, poco da lamentarsi. In pratica, la rabbia di tutti noi in quei giorni per le sopraffazioni vigliacche che aggredivano chi non poteva difendersi, che esprimevano il monopolio più vecchio del mondo, quello dell'uso della forza pubblica, dobbiamo dimenticarla, perché conta poco, mentre si giustificano le forze dell'ordine e chi le comandava. Allora la carica di Tolemaide si comprende bene. Cos'altro avrebbe dovuto fare la polizia? Allora quella di Placanica è legittima difesa, mentre quella di tutti coloro che si sono ribellati al G8, no. Forse anche i Pm avrebbero dovuto essere in strada per capire cosa è stata Genova. Ma sono magistrati: due pesi e due misure, la solita vecchia storia. «Non si può parlare della Diaz», affermano. Contemporaneamente offrono agli avvocati degli alti gradi della polizia un assist, sotto forma di affermazioni non provate e dossier già noti, che non cambiano nulla, ma che risultano ampiamente suggestivi per i media. Condannano l'operato della polizia nella scuola, ma si dimenticano di ricordare che fu proprio la dott.ssa Canepa a essere «interpellata» quella notte dai dirigenti, poi imputati per il massacro. Ai Pm «non piacciono i cattivi maestri», ma forse dai loro «buoni maestri» dovrebbero apprendere anche che non si può pensare di giocare al gioco della politica senza sporcarsi le mani. 300mila persone - bianche, pink, black, disobbedienti, migranti, pacifisti, autonomi - lo hanno fatto 6 anni fa, scontrandosi nel punto più alto di crisi di legittimità del capitalismo avanzato transnazionale, senza paura. Troppo facile e pavido nascondersi dietro una toga per esorcizzare il terrore che qualcosa potesse cambiare in chi detiene e organizza il potere. Se la storia siamo noi, se la memoria non è un souvenir da quattro soldi, ma un prezioso ingranaggio collettivo, queste stesse persone dovrebbero correre a Genova e far sentire la propria voce in un processo che si è abituato a risolversi come una cosa «per i soli addetti ai lavori».
«Addetti ai lavori» come i 25 imputati sui quali si vorrebbero scaricare tutte le responsabilità di quello che fu Genova nel 2001. 25 capri espiatori la cui condanna sarebbe utilissima per chiudere i conti che tutti (procura, forze dell'ordine e forse il movimento stesso) sono ansiosi da sempre di chiudere, o rimuovere. La storia non è una questione per addetti ai lavori di un'aula di tribunale. La storia siamo noi.
Gruppo di sostegno alla Segreteria Legale
e agli avvocati dei processi relativi al G8
(inclusi Cosenza e Napoli)