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L'irresistibile ascesa di Gianni De Gennaro, l'indagato di Genova
Claudio Jampaglia
Fonte: Liberazione (http://www.liberazione.it)
15 luglio 2007

Chissà cosa pensa dall'alto del suo ufficio al Viminale di tutti noi, di "quelli di Genova" che da sei anni chiedono le sue dimissioni. Chissà se sa che tra le decine di migliaia di persone in marcia in quelle calde giornate del luglio 2001, tanti credevano nella divisa che indossa e credevano in lui, nel super-poliziotto dell'antimafia, nello "sbirro" di Falcone e Borsellino che non molla mai. Probabilmente gli scoccia - anche se non l'ha mai detto -ma non c'è più ritorno.
Indecifrabile Gianni De Gennaro, uno dei pochi potenti pubblici d'Italia di cui si sa pochissimo. Una moglie, due figlie, e un cane. Nessuna foto privata, nessun gossip, pochissime uscite. Un uomo schivo che non si fa vedere nemmeno ai funerali dell'uomo simbolo dell'Italia che dice di no, Giovanni Falcone. Lavoravano gomito a gomito da anni, ma quel giorno "lo squalo", Dick Tracy o semplicemente "lo sbirro" come lo chiamano, restò a lavorare sulle analisi della scientifica, lontano dal cordoglio di Stato e da imbarazzanti strette di mano. Sono passati 15 anni e allora De Gennaro si occupava praticamente solo di quello: mafia. Poi nel 1994 arriva Berlusconi e la musica cambia. E il destino dello "sbirro" si lega inevitabilmente alla politica, al vuoto creato da Tangentopoli nella Repubblica dei partiti, al perché della stagione delle stragi dei corleonesi. Anni cruciali in cui i gattopardi lavorano perché nella Seconda Repubblica tutto cambi per nulla cambiare. E lui è lì, in mezzo ai segreti che scoperchiano il banale e l'indicibile del rapporto tra mafia e politica, al centro della confusione che tocca anche gli apparati. Diventa uomo di potere, che gli piaccia o meno, in un'Italia che riscopre feudi, clan, nuove compagnie di ventura pre-risorgimentali. Ed è lì che il poliziotto diventa anche "mazziere". In silenzio, come è il suo stile.
Scavando nella carriera, la prima volta che "lo sbirro" assurge alle cronache è il 1980. Ha trentadue anni, una laurea in legge alla Sapienza romana, è stato commissario ad Alessandria ed è già tornato nella capitale. Prima alla Narcotici, dove molti colleghi lo ricordano come preparato, sobrio e molto spiritoso (teneva anche qualche piantina di marijuana in ufficio «per sapere come sono fatte»), poi dirigente della Squadra mobile. Faceva "squadra" già allora, parlava dei "suoi uomini" prima che di sé. E non si tirava indietro. Una mattina, entra pistola in pugno nell'ambasciata del Belgio ai Parioli, spara allo "squilibrato" asseragliato dentro e libera i trenta ostaggi incolumi. Eroe. Il mito tra i colleghi, comincia lì. E' l'anno dell'omicidio di Pier Santi Mattarella, di Ustica, della strage di Bologna, della marcia dei 40mila della Fiat e del terremoto in Irpinia. I poliziotti sono in prima linea su terrorismo e politica. De Gennaro si occupa di criminalità organizzata, prima alla Criminalpol, poi alla direzione del Nucleo centrale anticrimine e al Servizio centrale operativo. Dieci anni di maturazione, di investigazione, di gruppi scelti tra Palermo e Roma contro tutto e tutti. Sono gli anni di Falcone e della scoperta che la mafia non è imbattibile. Quelli in cui la vita cambia.
Nel 1990, il secondo encomio e promozione sul campo arrivano con un'operazione internazionale contro Cosa nostra. Vicedirettore vicario della Dia nel 1990 e nel 1993 direttore. Intanto è esplosa Tangentopoli e siamo nel pieno delle stragi eccellenti e misteriose. Due anni cruciali. Vissuti da pochi uomini con il grandangolo di alcuni racconti, che opportunamente incrociati, danno un quadro un po' più complesso della realtà politica, imprenditoriale e della stabilità del Paese. Questi uomini sono i pentiti di mafia: Buscetta, Contorno, Mannoia, Calderone, Mutolo, Messina, Marchese, Di Maggio, Cancemi, Pennino, Spatola, Pulvirenti e ancora a decine fino a Giovanni Brusca, l'uomo del pulsante di Capaci. De Gennaro sa quasi tutto quello che hanno raccontato, conosce le loro paure e i loro segreti. Sono i suoi uomini scelti e fidati, "la squadra" con La Barbera, Pansa, Manganelli, Gratteri, Cavaliere, Germanà, fino a Caldarozzi ad avere catturato e poi preso in consegna i pentiti del processo Andreotti e quelli che incastrano i killer dei giudici. Ma fino a un certo punto. Dai maxi-processi alla cattura di Provenzano nel 2006, qualcosa è successo. Il ciclone dell'investigazione antimafia si sgonfia nella politica e nelle faide. I corleonesi hanno perso, lo Stato ha vinto, c'è bisogno di normalità. E poi ha vinto le elezioni Berlusconi e l'aria è cambiata. E con la mafia «si deve imparare a convivere», come disse l'imprenditore-ministro Lunardi.
La forza e il limite di De Gennaro si congelano nel 1994. E c'è un episodio che lo racconta bene. Nella prima estate del Berlusconi uno, Roberto Maroni allora ministro dell'Interno vorrebbe De Gennaro come capo della polizia. Si troverà davanti il muro del duo forte di Forza Italia, Previti e Dell'Utri, che non ne vogliono sapere. Al massimo, sembra abbia detto Previti, puoi fargli fare il prefetto di Palermo. Maroni allora chiede consiglio a Giancarlo Caselli, col quale ha un rapporto di stima e che all'epoca era procuratore a Palermo, nel posto di Falcone. La risposta è secca: «Se viene a Palermo lo ammazzano come Dalla Chiesa». Ad agosto capo della polizia diventa Fernando Masone, ma una settimana dopo De Gennaro viene nominato Vicecapo della Polizia direttore centrale della Polizia criminale. Lega e An hanno tenuto duro sul super-poliziotto, lui ha giocato le sue carte. Nel 1997 Napolitano (governo Prodi uno) lo eleva a Vicecapo vicario della Polizia, il numero due, e nel 2000 Bianco (governo Amato due) lo fa Capo. Qualche tempo dopo Dell'Utri in un'intervista al Corriere dirà che l'unica cosa che ha da rinfacciare a Berlusconi è di essersi tenuto «il compilatore del rapporto contro Dell'Utri e Berlusconi» al vertice della polizia.
De Gennaro lo sa bene. E comincia a rifarsi una verginità per rimanere nelle stanze alte del Viminale. E' un uomo di destra (al liceo dei gesuiti in cui studiava con Montezemolo e Draghi, i compagni dicono fosse iscritto alla Giovane Italia, oltre a ricordare un paio di spiacevoli episodi di irruenza giovanile un po' fascistoide) ma piace ai Pds-Ds e alla sinistra dell'antimafia. Rimarrà prigioniero della saga del "signore dei pentiti": uomo di mano per liquidare, per via giudiziaria, Forza Italia o poliziotto che non guarda in faccia nessuno e non ha paura di sconfiggere la mafia? Intanto la Dia comincia a languire, prendono forza e coraggio i Ros dei carabinieri, si moltiplicano scandali, scontri e qualche sparatoria tra le super-strutture d'investigazione e il sogno della superpolizia interforze all'americana, quella che lavora coi giudici e sta sopra le catene di comando ministeriali e politiche, fallisce.
In questo scontro da seconda Repubblica, gli apparati arrivano un po' dopo la politica. Il caos è grande. Altri onorati poliziotti, messi da parte dalla squadra, prendono altre strade. Alcuni si alleano con altre cordate, altri vanno in politica. Achille Serra, altro super-poliziotto, da vicecapo vicario della polizia (sempre nel 1994), diventerà deputato di Forza Italia nel 1996 nello stupore generale e poi tornerà alla carriera prefettizia fino a Roma. E' lui l'anti-De Gennaro per eccellenza, stesso pedigree e ancor più gradimento bi-partisan e prefettizio. Ma non gli sono bastati. Si dice che abbia due nei: non fa parte della "squadra" ed ha troppe frequentazioni politiche. Fuori dal palazzo, intanto, il mondo cambia e c'è da occuparsi dei coordinamenti europei di Schengen e di quelli dell'antiterrorismo che si sta globalizzando. E De Gennaro è uno scalino sopra gli altri nel gradimento americano. Andando a prendere Buscetta, coordinando l'operazione "pizza connection" e in molte altre occasioni, De Gennaro ha scoperto il modello Fbi e come sta cambiando: da centrale d'investigazione, simile alla "sua" Divisione investigativa antimafia (Dia), mutuata a sua volta dalla Dea a stelle strisce, a polizia giudiziaria con capacità d'intelligence, su tutto. Un luogo di sbirri, per sbirri. Un contropotere vero, lontano dalla politica e dal ministero, che serve all'indipendenza della magistratura e a quella della polizia. Il progetto è nella direzione del vento che spirerà dal crollo delle Torri gemelle, solo che in tanti vorranno metterci le mani.
Se il centrodestra si tiene a malincuore De Gennaro, e qualcuno lo vorrebbe morto, lui deve tenere alta la guardia. Serra ancora di più le righe. La "squadra" scala i vertici di tutte gli incarichi di comando, cominciano anche a piazzarsi nelle carriere prefettizie. Giusto a un livello più basso la regola di nomina al Viminale diventa una soltanto: largo alla polizia giudiziaria (quella che affianca i magistrati nelle indagini) e agli uomini delle mobili. Il lavoro sull'antimafia non finisce, la caccia ai latitanti eccellenti da grossi frutti, nuovi pentiti (Giuffrè e Campanella su tutti) rivelano la strategia della "talpa" degli eredi di Riina. Con la cattura del boss assoluto Provenzano, il giorno stesso del caos dei risultati elettorali del 9 aprile 2006, la "squadra" dà il suo chiaro segnale: siamo ancora qua. Dovrà, però, offrire qualcosa, De Gennaro. Ci proverà con il sanguinoso pasticcio del G8. E ci riuscirà con il terrorismo, dagli anarco-insurrezionalisti ai jihadisti. In competizione con diversi corpi dello stato (e più di tutto in un conflitto che diventerà guerra senza confini con il Sismi di Pollari) vengono servite le piste internazionali, seguiti gli allarmi più fantasiosi. Si salva l'antiterrorismo nostrano che con qualche fatica e molti errori va a caccia delle "nuove-Br". Un giovane funzionario spicca su tutti. Potrebbe essere l'erede dello "sbirro", è giovane (classe 1960) e viene dal campo, si chiama Franco Gabrielli e diventa nel novembre 2006 capo del Sisde senza passare la trafila nei servizi.
La "squadra" ha bisogno di rinnovarsi. Anche perché nonostante tutta la fatica fatta hanno un problema, a Genova, dove i magistrati cercano di portare avanti alcuni processi di coerenza e incappano nelle magagne della confusione, dei salti di catena di comando, nelle manipolazioni dei verbali, nelle prove truccate... Cosa ci sia di indicibile su Genova ancora non è chiaro. L'unica volta che De Gennaro ne ha parlato pubblicamente (in una lettera ai cittadini genovesi su Il Secolo XIX ) ha rimandato alla magistratura l'accertamento delle responsabilità sugli eventuali reati ed ha ribadito l'eccezionalità del caso, della guerriglia e le difficoltà nella gestione della risposta. Un solo accenno ai feriti e al sacrificio dei suoi. Nulla di più. Non sappiamo se abbia riconfermato la sua fiducia o detto di più, ieri, ai magistrati che gli hanno recapitato un avviso di garanzia per aver indotto alla falsa testimonianza alcuni funzionari sulla Diaz. D'altronde, l'imbarazzo è enorme. Che pena vedere alcuni tra i migliori uomini dell'investigazione italiana, gente come Gratteri, Luperi, Caldarozzi ripresi con altri "colleghi" da una tv locale attorno al sacchetto con le molotov finte introdotte nella Diaz da solerti "colleghi" per fornire un alibi alla "macelleria". Che pena. Eppure è così. Gli uomini venuti dalla strada, i poliziotti veri che hanno lottato per scalzare tutti - militari, prefettizi, imboscati e raccomandati - dalla sicurezza italiana, cascano a Genova, sulla strada. In via Tolemaide dove i carabinieri li anticipano e attaccano il corteo dei disobbedienti e via in picchiata fino alla notte dei "blu bloc", mascherati in divisa - e ancora senza nome - che mandano all'ospedale 83 dormienti con lesioni gravi e gravissime. Per anni abbiamo cercato il motivo di tutto ciò nella guerra interna tra carabinieri, polizia e apparati per il controllo dell'ordine pubblico in Italia. Non avevamo torto. Nel tempo e nelle aule del tribunale di Genova, brandelli di accuse e reticenze tirano in ballo molto di più dello "spirito di corpo" e di quello di "squadra". Svelano dove si è fermata la rivoluzione di De Gennaro partita nel vuoto di potere a cavallo dei primi '90.
Ma lo "sbirro" non molla. Dopo un settennato da Capo e prima dell'avviso di garanzia era pronto per un incarico prestigiosissimo: "superprefetto" per il coordinamento tra le polizie italiane (che ad Amato sta a cuore da anni), un incarico a un "super-Cesis" per coordinare i servizi segreti o forse un ruolo all'Onu o nell'Unione europea. Si è dovuto "accontentare" di capo di gabinetto del ministero. Il vero "uomo di Stato" - dell'unico Stato che sembra esistere in Italia, quello tenuto in piedi da patti e segreti - non poteva finire al Coni o in qualche "ente paraculo". Tanto meno avrebbe potuto sedere nella stanza a fianco del nemico numero uno di questi ultimi anni: Niccolò Pollari, l'ex-direttore del Sismi, dei dossier prima e dei ricatti poi. Due uomini opposti, in tutto. Ma De Gennaro ha comunque vinto e Pollari ha comunque ha perso. E il progetto continua. Con Manganelli come capo e lui come supervisore. Arriverà anche qualche timida ammissione di responsabilità su Genova. Ci diranno che gli è sfuggito il controllo, che qualcuno ha esagerato e pagherà dopo essere stato promosso un paio di volte. Per ora paga solo lo Stato i risarcimenti civili ai pestati. E De Gennaro dirà la sua in Procura, da "sbirro", per poi tornare al Viminale.



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Settimanale di Liberazione sul G8
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