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la testimonianza di Annemarie squarcia il silenzio di Ferrara
Checchino Antonini
Fonte: Liberazione, 17 giugno 2006
17 giugno 2006

«E' sempre peggio... è sempre peggio!». Con gli occhi rossi, gonfi di pianto, Lino Aldrovandi esce dall'aula "E" del tribunale di Ferrara, schiva le telecamere e si trascina con le stampelle (è reduce da una frattura alla tibia) in fondo al cortile del Palazzo di giustizia. «Non è vero che era saltato sulla macchina... lo hanno picchiato, gli sono saltati addosso...». Un pestaggio violento e fatale. Per due ore e mezzo lui e Patrizia Moretti, sua moglie, hanno rivissuto l'ultima manciata di minuti del loro figliolo Federico, raccontati dalla voce di Annemarie, la trentacinquenne camerunese che abitava al primo piano della palazzina di Via Ippodromo 10B e che, all'alba del 25 settembre 2005, fu svegliata dai lampeggianti e dal vociare degli agenti impegnati nel misterioso e violento controllo di polizia nel quale fu ucciso - così ipotizza il pm Nicola Proto - Federico Aldrovandi, 18 anni compiuti due mesi prima. Ragazzino mite, incensurato, disarmato, che tornava a casa dopo un sabato sera a Bologna.

Ieri a Ferrara è stato il giorno dell'incidente probatorio, una parentesi di processo nell'ambito delle indagini preliminari stabilita per sentire Annemarie che, a settembre, sarebbe potuta restare senza permesso di soggiorno.

La donna, stretta nelle forche caudine della Bossi-Fini aveva paura ma ha compiuto la coraggiosa scelta (a differenza di tanti vicini italiani) grazie all'amicizia di don Bedin, prete dei diseredati della periferia ferrarese. Dopo di lei, il 25 luglio, parlerà anche suo figlio, quindicenne che studia a Yaoundè, che lei stessa tirò giù dal letto, quella notte, per mostrargli i rischi di far tardi la sera. Dopo la rinuncia della pm Guerra - per non meglio precisate ragioni familiari e personali - l'ultimo giorno di marzo, Proto ha iscritto quattro agenti al registro degli indagati «per aver concorso a cagionare il decesso di Federico Aldrovandi con atti diretti a percuotere» stabilendo l'incidente probatorio con i due testi e una nuova autopsia affidata in coda all'udienza di ieri a due esperti torinesi, un medico legale e un tossicologo.

La donna, che studia da infermiera in una vicina città del Veneto, ieri è arrivata per prima, dopo una sosta in questura, scortata da due uomini della squadra mobile. Dopo una pausa per l'acquisizione delle carte su tre nuovi interrogatori di testi, è iniziato il suo racconto a porte chiuse, scandito dalle domande di Proto e per nulla sbiadito dalle poche repliche dei legali della difesa. «Schiacciante e agghiacciante», commenta Patrizia Moretti, anche lei visibilmente scossa dall'interrogatorio, «perché ogni volta troviamo nuovi terribili particolari», spiegano i due genitori, uno ispettore dei vigili, l'altra impiegata del comune estense. Sconvolti ma grati alla coraggiosa teste.

Il racconto di Annemarie, che lascia il tribunale su un'autocivetta senza fare dichiarazioni, ricalca in sostanza la sua deposizione del 19 febbraio che inizia dal momento del risveglio. Quando non seppe distinguere il rumore che la tirò giù dal letto ma subito si accorgerà dei bagliori blu che roteano nella stanza con le finestre aperte per l'afa. La donna si alza e raggiunge la finestra della cucina, sente delle voci, una frase ripetuta più volte: «Apri il baule». Probabilmente a parlare è una donna, l'unica tra i componenti dei due equipaggi di Alfa 3 e Alfa 2, le volanti accorse dopo la chiamata di un'altra donna al 112, insospettita da un ragazzo «che sembrava matto». Annemarie si affaccia e vede un ragazzo che si avvicinava «con passo deciso» a due vetture lampeggianti, ferme nello slargo a pochi passi dal cancello del galoppatoio e disposte parallelamente l'una all'altra a non più di un metro e mezzo di distanza. «Aggressivo?», avrebbe chiesto la difesa. «Ho detto a passo deciso, frettoloso», sarebbe stata la risposta della donna definita «lucida, tranquilla, ferma, dura, precisa» tanto che i legali di parte civile rinunceranno a fare ulteriori domande. Federico passa tra le auto, fa una specie di sforbiciata con le gambe ma non tocca nessuno. Questo il ricordo della donna come raccontano uscendo dall'aula madre e padre della vittima. Dopo la sforbiciata una gragnola di manganellate, quattro manganelli, due dei quali si fracassarono lasciando segni sul viso e sul corpo del ragazzo. Lo zio infermiere, che dovette riconoscerlo, lo trovò sfigurato. Un cronista che si azzardò a scrivere la circostanza si vide redarguire bruscamente da Severino Messina, procuratore generale, presente ieri in aula. E Annemarie ha confermato: picchiavano, picchiavano, picchiavano, mentre "Aldro", come lo chiamano gli amici, era a terra, picchiavano. Uno lo avrebbe preso per i capelli per farlo andare giù. E' caduto subito, è successo in un attimo. Il racconto è preciso e conferma anche dettagli delle relazioni di servizio, peraltro in contraddizione - sembra - una con l'altra, che finora sono l'unica "voce" degli indagati. I quattro agenti, infatti si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. La parte civile la ritiene una scelta inspiegabile, i loro difensori la definiscono una «scelta tecnica».

Annemarie, intanto, è dovuta andare all'angolo del balcone della cucina. Federico è a terra. Lo tengono immobile e lo pestano in tre. Uno è sul torace, uno sulle ginocchia, la poliziotta lo tiene per le caviglie. La pressione aumenta fino a quando sono quasi stesi su di lui. Un quarto uomo va e viene da una macchina, forse telefona. Ma Annemarie lo vede intento a schiacciare, a scalciare, lì dove c'è la testa di Federico. Vede il gesto dello schiacciamento, non vede però la testa del diciottenne. Se sono davvero calci, quelli del quarto uomo, si fanno certo più intensi quando la poliziotta si lamenta della resistenza di Federico che non ce la fa più a respirare ma che sarebbe pressato e picchiato «anche quando smette di dibattersi». Sono le fasi finali di un pestaggio iniziato in fondo al parchetto poco prima. «C'è tanto sangue», diceva uno degli agenti, "tranquillizzato" dalla collega: «Mica siamo stati noi, è la "roba"». Poi, sempre la ragazza avrebbe avvertito: «Fai attenzione che ci sono le luci già accese». Ma non erano quelle della casa di Annemarie. Le luci vere, sul caso, si sarebbero accese mesi dopo grazie al coraggio di parenti e amici dell'Aldro. E ora anche grazie ad Annemarie che «ha dato una lezione a tutti per il senso civico fuori dal comune» come dichiarano i legali degli Aldrovandi (Anselmo, Venturi e Del Mercato). Le difese minimizzano e lamentano la tardiva iscrizione al registro degli indagati e il conseguente ritardo delle indagini difensive.

Intanto, mentre la testimonianza di Annemarie squarcia il silenzio di Ferrara la questura non trova di meglio che chiedere al comune la rimozione di un graffito minuscolo che chiede verità per Aldro. Quasi non si vede ma è proprio sulla strada tra la Procura e il tribunale.