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Intervista a Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi
a cura di Salvatore Maria Righi
Fonte: L'Unità, 16 febbraio 2014
16 febbraio 2014

"Il reintegro nella Polizia dei quattro agenti che hanno ucciso mio figlio è molto triste e deludente. Non è in linea con la giustizia e nemmeno con la morale. Ma ancora una volta non siamo soli. Abbiamo avuto sollecitazioni da tanta gente, ci hanno spinti da tutta Italia a batterci perché questa storia non finisca in un bolla di sapone, e tutto torni come prima". Il 25 settembre saranno 9 nove anni, da quando Federico Aldrovandi è morto di botte e di bugie, anche se tecnicamente lo ha ucciso un anfibio schiacciato sul petto, in un'alba che all'epoca aveva parecchie ombre, ma adesso, dopo due processi e diverse condanne, è diventata molto più nitida, per quanto non meno dolorosa.

La battaglia di Patrizia Moretti, di suo marito Lino e di una famiglia che ha lottato anche per non perdere se stessa, dopo aver perso Aldro, però non è ancora finita. Non perché, a cadenze periodiche, tornino alti profili di revisionismo, come il "cuscino" che Carlo Giovanardi ha scoperto nella chiazza di sangue che cinge la testa di Federico come in un martirio laico, trovando una querela per diffamazione come risposta di Patrizia.

La battaglia non è finita perché in questi giorni gli agenti Enzo Pontani e Luca Pollastri, l'equipaggio della volante "Alfa 3", Paolo Forlani e Monica Segatto, colleghi di "Alfa 2", sono stati reintegrati nei "servizi amministrativi", dopo aver scontato una condanna ridotta a 6 mesi dall'indulto e un periodo altrettanto lungo di sospensione dal servizio. Patrizia chiede da sempre che non succeda quello che sta accadendo: cioè che la Polizia tolga la divisa a quei quattro agenti e li accompagni alla porta. Insieme a lei, lo chiederanno tutti quelli che oggi pomeriggio si raduneranno a Ferrara, proprio in Via Ippodromo, dove mazzi di fiori e alcuni striscioni ricordano il punto dove Federico è stato picchiato per un tempo ferocemente dilatato, per poi camminare in corteo verso la Prefettura, dove la famiglia Aldrovandi incontrerà le istituzioni che da un po' di tempo mostrano loro un volto un po' più gentile.

Al loro fianco, altre famiglie vittime di altre morti bianche, in altri processi in cui lo Stato processa se stesso: Stefano Cucchi, Giuseppe Uva, Dino Budroni, Michele Ferulli.

Signora Patrizia, qual è il senso di questa manifestazione?

"La sentiamo nel profondo del cuore, questa necessità di cambiare le cose in profondità al di là di quello che è successo a Federico e del destino di quei quattro poliziotti, perché ormai abbiamo capito che i casi come quello di mio figlio sono una realtà molto diffusa e non si può più parlare di poche mele marce. E perché quello che è successo a Federico non capiti più a nessuno".

Il caso Aldrovandi ha aperto la strada per tante inchieste e processi.

"Se mio figlio è diventato un simbolo, lo sono anche gli agenti che lo hanno ucciso. Sono stati loro e chi li ha coperti, dalla Questura in su, a decidere di diventare simboli degli omicidi di Stato, non glielo ha chiesto nessuno. Quindi, in quanto tali, è arrivato il momento per la polizia, per lo Stato e le istituzioni in genere, che cosa vogliano rappresentare e come vogliano essere per le persone".

Si riferisce al patto di fiducia coi cittadini?

"Mi riferisco al fatto che nella vicenda di Federico ho sentito prefetti e questori rammaricarsi per non sentire nella gente abbastanza fiducia nelle forze di polizia, e della frattura con i cittadini, Ma se loro continuano a tenersi nella pancia degli assassini come gli agenti che hanno ucciso Federico, di cosa si meravigliano? E come potrebbero le persone avere fiducia?".

Come fare per recuperarla?

"Oggi manifesteremo con tante altre persone il nostro dissenso, ma sia ben chiaro che non c'è nessuna sfiducia nelle istituzioni: al contrario, casomai, è perché tutti crediamo che le cose possano cambiare e che da tragedie così grandi nasca il bisogno di farlo. Il bisogno di chiedere alle istituzioni di curare questa malattia che sentiamo come un cancro nelle forze di polizia, se la polizia vorrà curarsi, prima di tutto per il bene della sua parte più grande che è sana e onesta, e appartiene a tutti".

E a chi tocca fare il medico?

"È arrivato il momento che la politica faccia la sua parte e che fermi questa deriva che ha fatto entrare la violenza e le brutte cose nelle istituzioni. Chi è stato eletto col voto deve intervenire per darci risposte sulle cose che chiediamo: oltre alla destituzione di questi agenti, l'introduzione del reato di tortura e l'identificazione degli agenti di polizia, come succede in tutto il mondo".

A suo tempo, il compianto Antonio Manganelli prese un impegno con voi.

"Venne alla festa della polizia a Ferrara, nel 2011, e ci promise che avrebbe seguito con molta attenzione il caso di Federico. Non ci poteva dare garanzie, ovviamente, ma ci ha assicurato che dopo la sentenza definitiva di Cassazione, in caso di colpevolezza degli agenti, si sarebbero presi provvedimenti contro quelli che aveva definito spine nel fianco. Quelli, cioè, che commettono reati portando la divisa".

Non è stata l'unica promessa non mantenuta, però.

"In tutti questi anni ce ne sono state fatte tante, nei ruoli istituzionali legati alla politica e al meccanismo elettivo, ma proprio per questo poi ad ogni cambio di assetto e di incarichi, si doveva ricominciare daccapo. Anche perché, nel nostro caso, chi ha potere reale di decidere e di incidere è legato agli ambiti amministrativi che non sono certo elettivi, e anzi non cambiano mai. Per questo, ribadisco, ora tocca alla politica, al potere di chi rappresenta gli elettori, fare la propria parte. Al di là del caso di Federico e di tutti gli altri dolori casi che sono successi in questi anni, c'è una richiesta di giustizia che non può più essere ignorata".

Ci sono stati anche attacchi alla sua persona.

"Ho portato pazienza e aspettato fino alla sentenza della Cassazione, dopo mi sono stufata e ho querelato tutti. Come Giovanardi, che aveva detto che il sangue di mio figlio era un cuscino. O l'esponente del sindacato di polizia che aveva fatto quella manifestazione e fatto quelle dichiarazioni contro di me, contro Federico, intervenendo in questioni nelle quali non c'entra nulla il sindacato. Anzi, facendo l'opposto di quello che dovrebbe fare un sindacato come il Coisp".

Gli agenti condannati vi hanno mai chiesto scusa?

"Mai, assolutamente. Anzi, alcuni di loro, come Paolo Forlani, hanno continuato ad attaccarci e insultarci tramite certi siti internet".

La battaglia per Federico è diventata una battaglia per le morti bianche, alla fine.

"Non è stata una scelta, perché chi passa quello che abbiamo passato noi, su questa strada ci si trova per forza. Ho capito che non avrei potuto non prendere questa direzione, dal momento che quei maledetti mi hanno portato via mio figlio. Non avrei mai potuto fare finta di niente, non gli avrei mai concesso questo beneficio. Mi sono stati molto utili, per questo, la vicinanza e l'esempio di Heidi Giuliani. O quelli delle madri di Plaza de Mayo, che sono state meravigliose e mi hanno insegnato tanto. Mi hanno fatto capire che non bisogna mai stancarsi di reagire, non bisogna mai tacere, per il bene superiore della giustizia, ma anche per quello dei figli, dei fratelli o dei padri che abbiamo perso".

Nei primi tempi avete raccontato che la città intorno a voi non era come vi sareste aspettati. Ferrara è cambiata?

"L'ambiente è stato duro e refrattario a lungo. Fin dall'inizio c'era chi si preoccupava più del fatto che mio figlio fosse in giro all'alba, che di quello che gli è stato fatto. Ma questa mentalità c'è sempre stata e ci sarà sempre. Quello che conta è che però le cose cambiano e soprattutto i giovani ci sono vicini e ci hanno dimostrato la loro presenza. Abbiamo dovuto affrontare forze in campo molto massicce, imponenti, perché anche nei siti internet siamo stati denigrati, come capita spesso alle vittime di questi delitti dove ci sono di mezzo le forze di polizia. Senza contare tutte le bugie e i depistaggi che ci sono stati per coprire le responsabilità che sono individuali, tengo a precisarlo. Con un questore che è stato più bravo degli altri ad aprire gli armadi e a tirare fuori documenti e prove, accuratamente nascosti prima, che avrebbero anche potuto cambiare il corso del processo per l'omicidio di Federico e da colposo, magari, farlo diventare doloso. Però tornerei al punto".

E cioè?

"La condanna dei quattro agenti e la loro carcerazione non era la cosa più importante per noi, anche se chi sbaglia deve pagare. Quello che noi abbiamo sempre chiesto era la loro destituzione, perché dei servitori dello Stato che fanno quello che hanno fatto loro, non si possono più chiamare poliziotti. Del resto, i medici che sbagliano non fanno più i medici: perché loro fanno eccezione? È gravissimo che siano ancora al loro posto, prima di tutto per tutte le persone oneste e corrette che stanno dentro le istituzioni. Non possono più liquidare la questione parlando di poche mele marce".

Con la pronuncia della Corte Costituzionale sulla legge Fini-Giovanardi, come ha detto Ilaria Cucchi, suo fratello Stefano sarebbe ancora vivo.

"È vero e fa venire i brividi a pensarci. Ma direi che, oltre ai casi specifici, come quello delle droghe, il problema di fondo è che un qualsiasi fermo o arresto di polizia, anche se fondato e corretto, non può e non deve trasformarsi in un pestaggio o in un'esecuzione sommaria. Non ci può essere tutta questa violenza dentro le istituzioni. Per questo, tra le battaglie che stiamo facendo, c'è anche quella di supporto all'introduzione al reato di tortura, che peraltro aveva già raccolto qualcosa come centomila firme. Purtroppo, sotto a questo profilo, l'Italia è ancora al palo, anche per le fortissime reticenze e le pressioni di una cultura della sopraffazione ancora esistente dentro alle istituzioni, dentro sacche che devono essere combattute ed eliminate. La cura, però, adesso tocca alla politica trovarla".