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Aldovrandi, giustizia è fatta
Checchino Antonini
21 giugno 2012

La Cassazione conferma le condanne per i poliziotti: 3 anni e sei mesi. Respinto il ricorso degli avvocati degli agenti.

«La Corte rigetta il ricorso e condanna gli imputati al pagamento delle spese processuali». Il dispositivo è rapidissimo. Ma i pochi minuti trascorsi dall'apertura della porta della IV sezione penale della Cassazione fino alla lettura dell'esito del ricorso n.ro 9 a Lino Aldrovandi e Fabio Anselmo sono sembrati un'eternità capace di far rivivere loro tutte le fasi di una tormentata vicenda che da ora, definitivamente, può essere archiviata come "Omicidio Aldrovandi".

Sono appena passate le 19.20 quando un giudice della Suprema corte, dopo oltre cinque ore di camera di consiglio, ha confermato le condanne a 3 anni e sei mesi per i quattro agenti che, all'alba del 25 settembre del 2005, effettuarono un violentissimo "controllo" di polizia su un ragazzo, disarmato e che non aveva commesso alcun reato, che morì in pochi minuti. Lo trovarono ammanettato dietro la schiena, faccia a terra, gli operatori del 118 che intervennero quella mattina al parchetto dell'Ippodromo di Ferrara.

Il primo grado e subito dopo il processo d'appello avevano smascherato le versioni ufficiali sulla morte accidentale del solito drogato che i colleghi dei quattro (in un altro processo verranno condannati per questo altri funzionari in servizio quel giorno) si sono spicciati a formulare e aggiornare mano a mano che una faticosissima controinchiesta dei legali della famiglia impediva prima di insabbiare il caso e poi di riaprirlo con una serie di prove e testimonianze decisive. Per lungo tempo, accanto a una famiglia straziata, ci saranno solo un pool di legali coraggiosi, pochissimi giornalisti (tra cui il vostro cronista per conto del quotidiano Liberazione) e gli amici di Aldro, studente, ragazzo, diciotto anni compiuti solo 68 giorni prima di essere ucciso.

Tre girasoli tra le mani, gli occhi cerchiati dal pianto, Lino Adrovandi dice di sentirsi finalmente «un po' in pace». Vorrebbe ricordare suo figlio - figlio di un agente di polizia municipale e nipote di un carabiniere - «per quello che era, non per come è stato ucciso». Dice Lino che il procuratore generale è stato molto preciso nella requisitoria che ha confermato la solidità delle due sentenze precedenti sull'omicidio colposo, per eccesso dei mezzi di contenimento, dello studente ferrarese. «Ho respirato aria di giustizia e vorrei che possano respirarla al più presto anche Ilaria Cucchi, Lucia Uva e Domenica Ferrulli. Ormai siamo una famiglia», dice rivolto a sorelle e figlie di altre vittime di malapolizia che da questa sentenza si aspettano molto.

«Abbiamo fatto la storia - dice anche Fabio Anselmo, uno dei legali ferraresi che ha guidato la controinchiesta che più di altre ha svelato che anche la polizia può sbagliare e che non riesce ad ammetterlo - prima cambiando la cultura della gente, poi quella giuridica perché questa sentenza farà da precedente». Assente per motivi di salute, per la prima volta da sette anni, la madre Patrizia che, aprendo un blog dopo cento giorni di silenzio della procura, diede un nuovo impulso alle indagini esportando il caso oltre le nebbie ferraresi.

In realtà, la famiglia Aldrovandi non era più parte civile in questo procedimento perché il Viminale ha raggiunto una transazione importante, pagando le spese legali e ammettendo di fatto le responsabilità dei suoi dipendenti che ora dovrebbero finalmente passare al vaglio disciplinare. «Ma per noi sono innocenti! Ci vediamo a Strasburgo», sbotta fuori dal Palazzaccio, la sede della Cassazione, Simona Cenni. Lei è la presidente di un'associazione "Prima difesa" che paga le spese legali a soldati e poliziotti sotto processo. Organizza corsi di tiro e di guida, ma non di educazione civica, a soldati e poliziotti convinta che esista un problema di diritti umani e civili negati ai cittadini con le stellette. Tra i 1300 soci anche legali legati al centrodestra. Anche per gli imputati della Diaz.

E' l'associazione ad aver coinvolto il celeberrimo Ghedini, avvocato di Berlusconi, in questo processo. Ma anche la star non riesce ad andare più in là del tentativo di tutte le difese di mettere sotto processo il drogato Aldrovandi e il suo stile di vita. Il pg è stato chiaro: il suo ricorso è «illogico e incongruente». Che poi la perizia dica che la droga non c'entri nulla (e che il diritto non contempli l'esecuzione sommaria di un consumatore) è un dettaglio che non appartiene alla cultura garantista coi forti e proibizionista coi deboli che ha avuto cura di preparare il terreno perché potessero accadere casi Cucchi, Aldrovandi, Uva, Ferrulli, Gugliotta, Mastrogiovanni, Casu e la lista potrebbe continuare ancora.

«Mio fratello - fa sapere Stefano Aldrovandi - ha avuto giustizia, però è costata troppo». Ma i legali dei quattro agenti (Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri), solo gli ultimi due presenti al dibattimento ma non alla lettura del dispositivo) si sono trincerati sulla medesima linea dei primi due gradi: a uccidere il ragazzo sarebbe stata l'excited delirium sindrome, una patologia inventata negli States per spiegare le morti di persone incatenate in questure, carceri, caserme o manicomi. «Che altro avrebbero potuto fare?», chiede uno di loro nell'arringa. Una polizia democratica dovrebbe saperlo.

«Questa storia chiama in causa in modo grave ed evidente la responsabilità delle forze di polizia italiane circa l'uso della forza», fa sapere Amnesty International, per cui i diritti umani dovrebbero valere per tutti, auspicando che «le autorità italiane diano attuazione alle raccomandazioni degli organismi internazionali per prevenire ulteriori tragiche violazioni dei diritti umani, in un contesto caratterizzato dalla perdurante mancanza di un organismo indipendente di monitoraggio sui diritti umani e sull'operato delle forze di polizia, richiesto dagli standard internazionali assieme all'introduzione del reato di tortura nel codice penale e l'adozione di meccanismi di prevenzione dei maltrattamenti». Ma la classe politica incapace perfino di una reale inchiesta parlamentare sui fatti di Genova dà ascolto alla comunità internazionale solo quando esige sacrifici umani non quando chiede di prevenirli.