«Buongiorno, scusi, io abito in via Ippodromo, proprio davanti al parco c'è uno che sta andando in escandescenza, sta urlando come un matto e sbatte dappertutto. Non ho capito se sono uno o in due perché sono nascosti dagli alberi». La voce di Cristina Chiarelli, che chiamò il 112 all'alba del 25 settembre del 2005, risuona in aula registrata. Lei, sul banco dei testimoni, si trincera dietro una serie di «non ricordo». Anche la terza udienza del processo per l'omicidio colposo di Federico Aldrovandi durerà dieci ore e vedrà un buon numero di testimoni alle prese con la ricostruzione della scena del misterioso e violentissimo controllo di polizia in cui perse la vita il diciottenne ferrarese. Più precisa Lucia Bassi, dirimpettaia di Annemarie, la donna camerunense che, per prima, ha descritto quello che potè osservare dal suo balcone. Anche Lucia Bassi vide Federico steso a faccia in giù mentre lo ammanettavano. Sentì una voce femminile chiedergli «Come ti chiami?». Accento veneto, e veneta è l'unica donna imputata. «Ma figurati se davvero ti chiami Federico», le rispondeva chiedendo «dove sono andati gli altri? Sono scappati dal parchetto? Quanti erano in macchina?». Il collega imprecava ché non riusciva ad ammanettare il ragazzo. E la donna: «Perché gli hai dato quel calcio in pancia?» Questo ha ricordato Lucia Bassi più sinteticamente di quanto avesse fatto con la tabaccaia di Via Mazzini, la prima importante testimone indiretta, che trovò il coraggio di raccontare in tv le confidenze della conoscente. Federico, intanto, chiedeva aiuto. E la poliziotta gli diceva «Adesso ti aiutiamo noi» e solo allora chiamerà un'ambulanza. Cosa avrà voluto intendere lo dovrà scoprire il processo.
Intanto, il migliore amico di Federico ha potuto dare una testimonianza sulla personalità del ragazzo ucciso di cui i difensori degli agenti vorrebbero processare lo stile di vita. Una linea evidente dalle prime ore successive ai fatti quando la comitiva di Federico fu convocata in questura. Paolo Burini, ventun'anni, è lui quello che ha disegnato il logo (un Federico in kimono e con le ali d'angelo) era stato fatto accomodare in una stanza e lo interrogava un agente con la targhetta "Narcotici". I ragazzi chiedevano come stesse Aldro, la polizia insisteva sulle sostanze. Diceva che stava «così, così». Con tutte quelle domande sulle droghe, Paolo e gli altri pensavano che servissero a un intervento medico. Finché viene annunciato l'ingresso del medico legale. Un uomo con i capelli bianchi si siede a braccia conserte, «mi fissa in silenzio», ricorda Burini. Finché quell'uomo si alza di scatto e sbraita alla domanda di Paolo: «Il tuo amico è morto perché era un drogato, come te, sappiamo che lo siete tutti! Diteci da chi comprate la roba». Non era un medico legale, era il capo della squadra mobile, il superiore diretto dei quattro agenti sotto processo. Pietro Scroccarello. Paolo ricorda con precisione quella mattina quando nel verbale troverà frasi artefatte. Come quella in cui gli fanno dire che Federico lavorava la sera per pagarsi le dosi. Chiederà di correggerle ma farà l'errore di fidarsi. Non lo rilegge e firma il verbale. Solo dai giornali, molto tempo dopo, scoprirà che non erano state cancellate le frasi mai pronunciate. Quando denunciò le manomissioni delle sue parole, Paolo Burini è stato denunciato a sua volta per diffamazione aggravata ma ieri ha trovato la forza di ripetere il suo racconto. Prossima udienza il 12 dicembre.