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"1974-75 Le bombe di Savona: Chi c'era racconta"
un libro di Massimo Macciò
18 ottobre 2006

Per gentile concessione dell'autore, Massimo Macciò, da oggi potete scaricare liberamente il libro "1974-75 Le bombe di Savona: Chi c'era racconta".

riportiamo integralmente l'introduzione dell'autore:

"Era l'autunno del 1974, avevo undici anni. Allora la scuola cominciava il primo ottobre, che per noi bambini era San Remigio. Oddio, non so se fosse proprio il giorno di San Remigio ma a noi tutti chiamavano remigini, anche se andavamo in prima media e nonostante avessimo ormai la rispettabile età di undici anni più o meno compiuti. Ora non si usa più da tempo ma a me il nome remigino lascia ancora un sapore spiacevole in bocca. Non che gli scherzi che noi primini avevamo dovuto sopportare fossero stati eccessivi: Savona era provincia anche in questo, per fortuna, e non ricordo più di qualche gavettone salutato da una risata collettiva. Però era il noviziato e quel minimo di nonnismo che a quell'età, almeno per me, non era facile da sopportare.
La mia scuola si chiamava "Bartolomeo Guidobono" che, anni dopo, avrei scoperto essere il nome di un alacre e assai devoto pittore savonese del Seicento. Ma allora, per me, Guidobono era un illustre signor Nessuno, un nulla di nulla buono soltanto a dare il nome a quella scuola, appunto. Poi, a essere sincero, io delle Guidobono non frequentavo neanche la sede; andavo alle succursali, che poi erano due appartamenti in Via Chiappino dove avevano sistemato la sezione "L" del mio amico Gibì e la mia, la "M". La sede centrale, io non l'avevo mai vista.
Qualcuno tra i più grandi - nelle succursali c'erano numerosi ripetenti di lungo corso che a me sembravano uomini fatti e finiti e che da lì a poco ci avrebbero passato ridendo improbabili giornalini tedeschi e olandesi, chissà come procurati - aveva parlato di una costruzione enorme e smisurata, un cubo di vetrocemento che a me aveva fatto venire in mente, chissà perché, il palazzo di vetro dell'ONU che qualche volta vedevo al telegiornale. Ma, ripeto, erano suggestioni. Però, bene o male, anche noi delle succursali facevamo parte delle "Guidobono" e quando, il 12 novembre, una bomba era scoppiata davanti alla scuola la cosa mi aveva discretamente impressionato. Mi sembrava un atto doppiamente fuori consonanza: per la bomba - messa da chi? E perché? - e per la bomba davanti a una scuola, con il rischio di uccidere dei bambini, il che mi sembrava una vigliaccata. Di più: una bomba davanti alla mia scuola, mia da poco e in bassa percentuale, va bene, ma pur sempre il mio Istituto. Insomma, la cosa mi aveva colpito.
Allora mio padre aveva una Fiat 1300 di un colore che oggi i concessionari chiamerebbero canna di fucile ma che a me sembrava solo ruggine scuro. Gran macchina, la Milletre. Mio padre l'aveva comprato di seconda o terza o quarta mano, ma che c'entra? Grande, con il motore davanti e il bagagliaio dietro (o, forse, il contrario), solida di quella solidità spiccia e di poche parole, senza orpelli ma rassicurante. E poi indistruttibile: andava sempre. Bastava mettere la chiave, far girare il motore e via. Mio padre, secondo me, assomi-gliava alla macchina: di poche parole, senza fronzoli, ma in fondo curioso. Insomma: due giorni dopo, tra il lusco e il brusco, ci aveva caricato tutti sulla Milletre e così, per curiosità, eravamo andati a vedere dov'era scoppiata la bomba.
Ricordo che, lì per lì, mi aveva impressionato molto di più la costruzione che il cratere. Cribbio, era veramente grande quel parallelepipedo che, al buio o quasi buio della sera, sembrava minacciare le costruzioni lì attorno. Dentro si intuivano scale smisurate e senza apparenti arrivi. Non mentirò dicendo che ne ero rimasto entusiasta: con le parole di oggi, il tutto mi era sembrato una via di mezzo tra un'Illuminazione cubista di Rimbaud e un racconto semionirico di Borges. Avevo pensato con gratitudine al mio appartamentino adat-tato alla bell'e meglio in via Chiappino con qualche banco e una cattedra, a quella dimensione a misura d'uomo dove magari prendevi qualche gavettone ma, insomma, chi te lo aveva fatto aveva un nome e un volto.
Il cratere lo avevo visto dopo. La zona era transennata, c'erano vetri dappertutto. Mio padre aveva posteggiato la macchina quasi sul ciglio ed era sceso facendo qualche breve commento tecnico sullo spostamento d'aria, lo smottamento e quant'altro. Il cratere, in effetti, era bello grosso e mia madre - si sa come sono le madri - avrà fatto senz'altro qualche osservazione tra lo stupefatto e il terrorizzato del tipo: se fosse scoppiata di mattina... Ma a dir la verità la frase precisa non la ricordo.
Dopo qualche minuto era sbucato in lontananza un lampeggiante della polizia. Senza sirena, solo la luce girevole, penso un tranquillo giro d'ordinanza. Non che noi avessimo niente da temere, però mio padre aveva un bizzarro concetto riguardo alle procedure d'attentato per il quale chi ha messo una bomba torna sempre a controllare il risultato. Così, a scanso d'equivoci, eravamo montati in auto e... niente. Niente nel senso che la Milletre non era partita. L'indistruttibile orgoglio della migliore industria nazionale ci guardava muta, rantolando qua e là qualche scarica elettrica. Noi davanti al cratere, la polizia dietro - dietro nel senso che era arrivata con l'auto proprio alle nostre spalle - e la macchina ferma. Anche qui, non starò a raccontare di aver interpretato quel fatto come un segno del destino: e di quale destino, poi? Io non avevo interpretato un accidente, avevo soltanto una gran paura che i poliziotti mettessero in relazione quel cratere con la macchina e i suoi occupanti.
Mio padre, in realtà, non aveva faticato granché a convincere i poliziotti di cosa era accaduto. Non so dire, oggi, se avessero trasmesso in questura i dati della patente ma per me c'era poco da controllare: le sere dei giorni pari mio padre andava a fare la guardia alle gru del porto, quelli dispari girava di ronda insieme ad altri attorno alle case del quartiere. Anzi: ero molto orgoglioso di quell'attività vagamente podistica degli uomini del mio palazzo, tutti portuali piuttosto spicci e nerboruti. Mi dava un senso di tranquillità, ecco. In ogni caso, era apparso subito chiaro che era tutto a posto. Solo che l'auto non partiva. Vedo mio padre raccontare ai tutori dell'ordine che poco più in là c'era una mini discesa e magari la Fiat... in discesa... se solo la macchina non fosse piazzata com'era... In breve, l'ultimo flash che ho della serata è mio padre che governa la Milletre tenendo con una mano il volante e dietro, da destra a sinistra, io, i due poliziotti e mio fratello Mauro a spingere. Poco più in là mia madre con mia sorella in braccio ringraziava i militari. La Milletre alla fine era partita.
Le ronde, appunto. Il mio ricordo di quel periodo, oltre a questi incidenti autopolizieschi, è legato alle ronde. I portuali si erano mobilitati per controllare il porto e mio padre, quand'era il suo turno, partiva per far la guardia alle gru e a quant'altro. Di questo sapevo poco. Intuivo, certo, che controllare il porto voleva dire difendere il posto di lavoro. E, in un certo senso, la possibilità di quelle bombe la capivo di più: naturalmente ero contrario e mi facevano paura, che diamine, ma almeno avevano un senso logico. Distruggere le infrastrutture avrebbe significato la paralisi del sistema produttivo, licenziamenti, malcontento, magari la "canaglia proletaria" come giustificazione per una svolta reazionaria: oggi in quelle bombe lavorative vedrei questo disegno. Allora no, era troppo presto, ma in qualche modo riconoscevo loro una funzione: servivano a qualcosa, e allora poteva avere un senso opporsi a questo qualcosa.
Mi incuriosivano e mi preoccupavano di più le altre ronde: quelle che mio padre e gli altri facevano nei giorni dispari, attorno e dentro al quartiere. Quartiere proletario, Legino, e quindi possibile oggetto di attacchi dall'altra sponda, ma anche questi sono discorsi di oggi. Allora proprio non mi capacitavo di che cosa potessero controllare dei maturi ancorché ben piantati padri di famiglia nel nostro quartiere. Una sera l'avevo chiesto a mio padre e lui, come sempre laconico ai confini del monosillabo, mi aveva risposto che guardavano negli angoli, nei portoni delle case, stavano attenti che qualche sconosciuto sospetto non lasciasse pacchi in giro... cose così. Ripeto: che qualcuno potesse mettere una bomba in posti dove, tutt'al più, noi bambini andavamo a giocare a nascondino superava le mie capacità di comprensione. Ma certo, se lo faceva mio padre, e i padri dei miei amici, questo controllo doveva avere un senso e, in qualche modo, anche un suo fascino. Così io e il mio amico Gibì avevamo segretamente organizzato le nostre ronde personali che consistevano in questo: giravamo tutto il pomeriggio nei sottoscala del nostro e dei palazzi vicini e, se vedevamo qualcosa di sospetto, dovevamo immediatamente e di corsa avvertire i genitori o qualche "grande" che andasse a disinnescare la bomba. Naturalmente non trovammo mai niente ma quest'attività ci impegnò molto e la facemmo davvero molto seriamente: in qualche modo, il mio antifascismo iniziò da lì, da quelle ispezioni nei cortili a disturbare i cani che dormivano.
Sono passati più di trent'anni da quel torbido, convulso, triste e vile autunno del 1974. Magari vicende come le mie sono solo storie del secolo scorso, di quelle che si raccontano ai nipoti. Magari, invece, raccogliere e raccontare questi e altri episodi di piccola resistenza, le molte vicende di uomini e donne impegnate in una lotta silenziosa e concreta contro chi voleva negare quel poco di libertà civile che i savonesi si stavano faticosamente costruendo, tutto questo serve. Una sorta di profilassi sociale, ecco. Di bombe, in Italia, ne sono scoppiate ancora molte altre; molti degli accusati per quelle stragi oggi vivono liberi e tranquilli tra il Giappone e il Sudamerica, altri non si sono mai trovati e, forse, circolano ancora da queste parti. Magari, a forza di dimenticarle, nell'indifferenza generale corriamo il rischio di dover ripetere quelle ronde e di dover ritrovare da zero quel piccolo, antieroico, banale esercizio di Resistenza. Allora, forse, queste storie vale la pena di raccontarle.
Nelle pagine che seguono sono riportate le conversazioni che ho avuto con alcuni tra coloro che hanno partecipato a quei giorni. Sono - e vanno immaginati come tali - dialoghi in libertà, in cui il discorso spaziava liberamente a fatti, persone, situazioni anche estranee al tema oggetto della discussione. In ogni dialogo la struttura narrativa è evidentemente diversa dalla pagina scritta: in una conversazione la ripetizione, la risata, lo stesso tono di voce serve a dare il senso del concetto che si vuole evidenziare. Tutto questo, inevitabilmente, si perde nella trascrizione. Ho tentato di riportare il più fedelmente possibile le conversazioni - a costo di ripetizioni e ridondanze la cui responsabilità è evidentemente mia - e anche così, purtroppo, il risultato sulla pagina scritta è molto meno fresco dell'originale. Ringrazio di cuore tutti coloro che si sono prestati a questa operazione di recupero della memoria: errori ed omissioni sono totalmente miei.
Infine, le interviste che seguono hanno l'ambizione di costituire solo il prologo di una "opera corale" sulle bombe di Savona che i cittadini e, soprattutto, gli studenti savonese potrebbero costruire nel corso del tempo. Moltissimi dei protagonisti a vario titolo di queste vicende devono ancora raccontare la loro storia e la loro verità: la speranza è che tra i molti progetti che le scuole savonesi stanno approntando possa trovar spazio anche la ricerca e il racconto di questi interpreti e la pubblicazione delle loro esperienze. L'operazione, in fondo, è sempre la stessa: quella di "fare memoria" su un periodo certamente indimenticabile per i savonesi e che, dopo un lunghissimo periodo in cui è rimasto sottotraccia, è arrivato il momento di far tornare alla luce."



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